Piccole cose
Sono piccole cose che fanno sentire diversi, dando un modo per tirare in avanti come se niente fosse accaduto o qualcosa irrimediabilmente cambiato.
Ho mantenuto il lavoro, i capelli sono cresciuti, l’auto finalmente l’ho fatta aggiustare, e questo per i soliti motivi che si sentono in giro: essere sempre la stessa seppure diversa.
Però, con la casa proprio non sono riuscita, ero malata lì dentro, mi ricordava ogni volta che Tu c’eri stato. E non so quanti giorni sono passati prima che smettessi di andarci senza riuscirci a dormire, ho continuato a trascinarmici dentro, mi aspettavo di sentirti tornare, Michael… ti chiamavo, finché non ho capito che il momento era giunto: ho infilato dentro una borsa un po’ di vestiti e me ne sono andata. Era notte inoltrata.
Ho chiamato un taxi e sono scesa alla stazione centrale, non me la sentivo di starmene sola, ma non volevo vedere nessuno. Ho pensato che in mezzo alla gente che non conoscevo, in mezzo a voci straniere da far paura persino di giorno, ho pensato che sarei stata meglio.
Era un giovedì qualsiasi, di una settimana qualsiasi, di non molto tempo fa direi, forse… era appena ieri.
Ho cominciato a tirar fuori le mie cose dalla borsa.
Prima le scarpe, poi una gonna, e infine un paio di manette. Ho messo tutto, in uno stato di trance, sul cofano scuro di un’auto cui me ne stavo appoggiata. Il problema è che ancora non sapevo cos’è che avrei fatto, ma certo a casa non sarei tornata davvero.
Non sapevo perché me ne stavo così senza far niente, con la mia roba sparsa in quel modo, ma siccome non avevo voglia di nulla, ho lasciato perdere. Ho aspettato. Lo sapevo che qualcosa prima o poi sarebbe successo. Ed è accaduto rapidamente.
Il primo richiamo mi ha raggiunto di spalle. “Ehi, bella!” erano due slavi.
“Bevi?" hanno detto, porgendo una birra senza chiedere altro, chissà da quant’è che mi stavano intorno.
La gente pensa che siccome te ne stai sola in mezzo a una strada, con le tue cose gettate dove capita, ti può trattare come un tappetino, una sputacchiera, un cesso. D’altronde io cosa stavo cercando?
Quello che successe dopo, quando arrivammo in quel piccolo hotel, dietro Piazza Vittorio, nel pieno del quartiere cinese, fu un dolore che mi ha spalancato il cielo come se fosse amore.
Le cose che ho visto mentre mi pisciavano addosso, mi picchiavano, mi facevano delle bruciature, ora le penso come la vittoria del martire. Quando le loro unghie si sono conficcate nella mia carne, ho visto il cielo svelarsi, la morte ironicamente mi è diventata la migliore esperienza sessuale, l’idea della pace che stavo per sentire ha tramutato in estasi tutta la mia sofferenza.
Li ho seguiti senza un obbligo di cui li possa accusare, “ci divertiremo” ripetevano; così dopo aver bevuto un paio di bicchieri di vodka, in quell’hotel a un misero bar dove non c’era nessuno all’infuori di noi, abbiamo preso una camera insieme.
La paura più grande è quella ti prendi quando capovolgi il gioco, quando non sei più la schiava di qualcuno ma divieni schiava di te stessa. E questo è quello che mi stava capitando.
L’angoscia quando l’inondi d’amore e gli occhi quando sono annebbiati da questo delirio, loro non capiscono, ma allo stesso tempo hanno la schiacciante convinzione che niente sarà più come prima. Rimangono immobili, docili dentro l’autodistruzione, in silenzio o a piangere, cambiati per sempre, mentre tutto quello in cui hanno sempre creduto diventa un trauma con cui farsi del male.
Quella notte ho dato tutto quello che avevo e la mia mente si riempita di lacrime. E devo dire che gliene sono grata. Non ho dovuto sopportare me stessa. Quei due sono stati bravi. Poi certo, il giorno dopo è stata un’altra cosa.
Me ne sono andata mentre riposavano ancora, distrutti, l’uno nelle braccia dell’altro. Sembrava che si coccolassero, uno poggiava la testa sul petto dell’amico, quello che borbottava in slavo, parole che risuonavano nelle costole, e uscivano come una musica.
Fui frenetica, mi misi a cercare tutto quello che mi apparteneva e me ne andai. Avevo dolore dappertutto, ogni volta che mi sfioravo finivo per ritrarmi, erano stati bravi. Avevano eseguito ogni cosa esattamente come gli era stata chiesta, nonostante fossero sempre lì a guardarsi domandandosi quand’è che avrebbero finito. Ma mi bastava rassicurarli, li avrei pagati adeguatamente se avessero fatto bene il loro lavoro…, e così è stato.
Sono rimasta sorpresa poi, quando mi sono ritrovata davanti a C..
Con un taxi, mi ero fatta portare da lui senza rendermene conto, per scoprire che non c’era nessun altra parte dove sarei voluta stare.
Mi sono scagliata contro di lui di brutto, appena l’ho visto, sapevo che stavo sbagliando, ma nonostante tutto non riuscivo a pormi nessuna resistenza. Ridevo e piangevo, e il “perché tu” diventava sempre più cattivo, sempre più un grido, l’idea che lui fosse colpevole è diventata sempre più forte, convincente al punto da non trattenermi più e da saltargli addosso.
E lui mi ha baciato, io l’ho morso, al che mi ha risposto mordendo a sua volta ma di modo che tanto è bastato per riprendermi dal mio momento di follia, sangue mi usciva dal labbro.
“La felicità è sapere che c’è qualcosa di meglio che ti aspetta là fuori, non è così? In questo modo non rimani mai delusa.” L’ho guardato stupìta, mi sentivo fatta. E sono rimasta con questo atteggiamento semi imbambolato cambiando discorso ogni volta che dicevo qualcosa.
Non avevo idea di quale faccia avessi, ma le bruciature sulle mani certo si notavano, i lividi cominciavano a prendere colore, mi misi a sedere tenendomi la parte del fianco che mi faceva male.
Iniziai di nuovo a piangere, e nel frattempo gli raccontai tutto, ogni cosa, non ho avuto nessuna esitazione, gli ho mostrato praticamente chi ero, almeno per come la vedevo io: diversa. Ma non è stato così, C. mi ha abbracciato e mi ha lasciata sfogare.
Sono piccole cose che fanno sentire diversi, dando un modo per tirare in avanti come se niente fosse accaduto o qualcosa irrimediabilmente cambiato.
“Ti porto a letto”, ha detto a un certo punto, e a me è sembrata l’unica cosa che fosse accettabile. Sono crollata come una bambina, sollevata dalla sue braccia, ho ritrovato l’equilibrio per la prima volta. Sono uscita dal guscio…
Ho compiuto il primo claudicante e dolorosissimo passo... il primo passo per allontanarmi da Te.
Grazie C.