29 ottobre 2006

Piccole cose



Sono piccole cose che fanno sentire diversi, dando un modo per tirare in avanti come se niente fosse accaduto o qualcosa irrimediabilmente cambiato.

Ho mantenuto il lavoro, i capelli sono cresciuti, l’auto finalmente l’ho fatta aggiustare, e questo per i soliti motivi che si sentono in giro: essere sempre la stessa seppure diversa.

Però, con la casa proprio non sono riuscita, ero malata lì dentro, mi ricordava ogni volta che Tu c’eri stato. E non so quanti giorni sono passati prima che smettessi di andarci senza riuscirci a dormire, ho continuato a trascinarmici dentro, mi aspettavo di sentirti tornare, Michael… ti chiamavo, finché non ho capito che il momento era giunto: ho infilato dentro una borsa un po’ di vestiti e me ne sono andata. Era notte inoltrata.

Ho chiamato un taxi e sono scesa alla stazione centrale, non me la sentivo di starmene sola, ma non volevo vedere nessuno. Ho pensato che in mezzo alla gente che non conoscevo, in mezzo a voci straniere da far paura persino di giorno, ho pensato che sarei stata meglio.

Era un giovedì qualsiasi, di una settimana qualsiasi, di non molto tempo fa direi, forse… era appena ieri.

Ho cominciato a tirar fuori le mie cose dalla borsa.

Prima le scarpe, poi una gonna, e infine un paio di manette. Ho messo tutto, in uno stato di trance, sul cofano scuro di un’auto cui me ne stavo appoggiata. Il problema è che ancora non sapevo cos’è che avrei fatto, ma certo a casa non sarei tornata davvero.

Non sapevo perché me ne stavo così senza far niente, con la mia roba sparsa in quel modo, ma siccome non avevo voglia di nulla, ho lasciato perdere. Ho aspettato. Lo sapevo che qualcosa prima o poi sarebbe successo. Ed è accaduto rapidamente.

Il primo richiamo mi ha raggiunto di spalle. “Ehi, bella!” erano due slavi.

“Bevi?" hanno detto, porgendo una birra senza chiedere altro, chissà da quant’è che mi stavano intorno.

La gente pensa che siccome te ne stai sola in mezzo a una strada, con le tue cose gettate dove capita, ti può trattare come un tappetino, una sputacchiera, un cesso. D’altronde io cosa stavo cercando?

Quello che successe dopo, quando arrivammo in quel piccolo hotel, dietro Piazza Vittorio, nel pieno del quartiere cinese, fu un dolore che mi ha spalancato il cielo come se fosse amore.

Le cose che ho visto mentre mi pisciavano addosso, mi picchiavano, mi facevano delle bruciature, ora le penso come la vittoria del martire. Quando le loro unghie si sono conficcate nella mia carne, ho visto il cielo svelarsi, la morte ironicamente mi è diventata la migliore esperienza sessuale, l’idea della pace che stavo per sentire ha tramutato in estasi tutta la mia sofferenza.

Li ho seguiti senza un obbligo di cui li possa accusare, “ci divertiremo” ripetevano; così dopo aver bevuto un paio di bicchieri di vodka, in quell’hotel a un misero bar dove non c’era nessuno all’infuori di noi, abbiamo preso una camera insieme.

La paura più grande è quella ti prendi quando capovolgi il gioco, quando non sei più la schiava di qualcuno ma divieni schiava di te stessa. E questo è quello che mi stava capitando.

L’angoscia quando l’inondi d’amore e gli occhi quando sono annebbiati da questo delirio, loro non capiscono, ma allo stesso tempo hanno la schiacciante convinzione che niente sarà più come prima. Rimangono immobili, docili dentro l’autodistruzione, in silenzio o a piangere, cambiati per sempre, mentre tutto quello in cui hanno sempre creduto diventa un trauma con cui farsi del male.

Quella notte ho dato tutto quello che avevo e la mia mente si riempita di lacrime. E devo dire che gliene sono grata. Non ho dovuto sopportare me stessa. Quei due sono stati bravi. Poi certo, il giorno dopo è stata un’altra cosa.

Me ne sono andata mentre riposavano ancora, distrutti, l’uno nelle braccia dell’altro. Sembrava che si coccolassero, uno poggiava la testa sul petto dell’amico, quello che borbottava in slavo, parole che risuonavano nelle costole, e uscivano come una musica.

Fui frenetica, mi misi a cercare tutto quello che mi apparteneva e me ne andai. Avevo dolore dappertutto, ogni volta che mi sfioravo finivo per ritrarmi, erano stati bravi. Avevano eseguito ogni cosa esattamente come gli era stata chiesta, nonostante fossero sempre lì a guardarsi domandandosi quand’è che avrebbero finito. Ma mi bastava rassicurarli, li avrei pagati adeguatamente se avessero fatto bene il loro lavoro…, e così è stato.

Sono rimasta sorpresa poi, quando mi sono ritrovata davanti a C..

Con un taxi, mi ero fatta portare da lui senza rendermene conto, per scoprire che non c’era nessun altra parte dove sarei voluta stare.

Mi sono scagliata contro di lui di brutto, appena l’ho visto, sapevo che stavo sbagliando, ma nonostante tutto non riuscivo a pormi nessuna resistenza. Ridevo e piangevo, e il “perché tu” diventava sempre più cattivo, sempre più un grido, l’idea che lui fosse colpevole è diventata sempre più forte, convincente al punto da non trattenermi più e da saltargli addosso.

E lui mi ha baciato, io l’ho morso, al che mi ha risposto mordendo a sua volta ma di modo che tanto è bastato per riprendermi dal mio momento di follia, sangue mi usciva dal labbro.

“La felicità è sapere che c’è qualcosa di meglio che ti aspetta là fuori, non è così? In questo modo non rimani mai delusa.” L’ho guardato stupìta, mi sentivo fatta. E sono rimasta con questo atteggiamento semi imbambolato cambiando discorso ogni volta che dicevo qualcosa.

Non avevo idea di quale faccia avessi, ma le bruciature sulle mani certo si notavano, i lividi cominciavano a prendere colore, mi misi a sedere tenendomi la parte del fianco che mi faceva male.

Iniziai di nuovo a piangere, e nel frattempo gli raccontai tutto, ogni cosa, non ho avuto nessuna esitazione, gli ho mostrato praticamente chi ero, almeno per come la vedevo io: diversa. Ma non è stato così, C. mi ha abbracciato e mi ha lasciata sfogare.

Sono piccole cose che fanno sentire diversi, dando un modo per tirare in avanti come se niente fosse accaduto o qualcosa irrimediabilmente cambiato.

“Ti porto a letto”, ha detto a un certo punto, e a me è sembrata l’unica cosa che fosse accettabile. Sono crollata come una bambina, sollevata dalla sue braccia, ho ritrovato l’equilibrio per la prima volta. Sono uscita dal guscio…

Ho compiuto il primo claudicante e dolorosissimo passo... il primo passo per allontanarmi da Te.

Grazie C.




Nero




Un giorno come un altro, niente che lasciasse presagire, Lui, Michael, mi stava aspettando. Comodamente seduto su una poltrona in salotto, la camicia appena sbottonata e lo sguardo attento.

C. era in disparte, in piedi, in mano un bicchiere di vino. L’ho guardato bene, l’ho osservato. Non ero sicura di conoscerlo. Non lo conoscevo.

C. mi scrutava, aggrottava la fronte, mostrava qualche anno in più di Lui. Appena entrata in quella sala mi ha seguita con lo sguardo e non mi ha mai più lasciata, mi ha sorriso con un’eleganza che non potevo negargli: era indubbiamente sicuro di sé. La sua espressione era curiosa, audace, la sua mano era decisa a stringere la mia, calda, per nulla tesa. I capelli brizzolati che ricadevano sugli occhi gli conferivano un volto altero e interessante.

Mi sono preoccupata non appena l’ho visto.

Sono andata verso Michael, aprendo e lasciando cadere sulle spalle il leggero negligé che indossavo, così come sapevo che Lui voleva da me, fiera di lasciar intravedere la carne appena brunita dal sole, ho avanzato verso di Lui piantandomi fissa davanti alla poltrona dove sedeva, ho aperto le gambe e istintivamente ho congiunto le mani dietro la schiena.

C. si è avvicinato, l’ho sentito dietro di me, mi esaminava. Lentamente, con un gesto che mi ricordava un’iniziazione, mi ha fatto scivolare ulteriormente le spalline della veste sulle braccia e poi sui polsi, mentre con l’altra mano mi è salito lungo la schiena dal basso verso l’alto, insinuandosi ovunque tra i capelli, delicatamente, ma senza lasciar mai trapelare alcun dubbio sulla sua posizione dominante.

Quando è arrivato al collo, ha premuto le dita tanto forte da togliermi il fiato. Ho chiuso gli occhi, non ho potuto evitarlo, mi sono persa in quel momento nonostante fossi davanti a Lui, perché l’ho sentito, Lui cedeva a un altro il Suo possesso. Il Suo stesso controllo. Me.

C. però ha smesso di stringere prima che me ne rendessi veramente conto. Michael teneva gli occhi fissi nei miei e io mi sono persa un’altra volta in quei Suoi occhi così intensi, mi sono inginocchiata, quella confusione dentro di me si stava facendo buio a mia insaputa. E sul fondo c’era una me stessa che non si sarebbe più potuta riconoscere. Ho appoggiato il capo contro la Sua coscia e ho aspettato.

Ho aspettato che Lui parlasse, ma Michael non è mai stato di tante parole, ho capito che mi incitava a conoscere ogni cosa prima di tutto dentro me stessa.

E così è stato, mentre C. slacciava la cintura dai suoi pantaloni lasciando che quella striscia di cuoio attraversasse lentamente tutti i passanti, uno a uno, lentamente, appositamente perché voleva la sentissi. Che comprendessi. Prima che Michael con un’occhiata mi sollecitasse ad alzarmi ed io obbedissi.

Mi sono ritrovata in piedi tra le gambe del mio Padrone, in mezzo alla sala, nel mio ricercato déshabillé, tremando esageratamente.

Poi uno sguardo furtivo mi ha consentito di notare Lui e C. mentre si davano a intendere, da cui: “muoviti piccola”, mi ha incoraggiato Lui piegandomi intimamente.

“Bella”, ho udito, C. mi studiava, i suoi occhi mi frugavano con l’intenzione esplicita di mettermi a disagio.

“E’ tua ora. Fanne quello che vuoi.”

Così. Lo ha dichiarato apertamente, Lui, il mio Lui, Michael, il mio Michael, spingendomi premurosamente verso l’altro. Io davvero non ho voluto capire, non ho inteso bene mi sono detta, sono rimasta piantata davanti a Lui, io non mi sono mossa.

Allora C. è venuto verso di me, mi ha accarezzato con molta dolcezza e mi ha fatto i suoi sinceri complimenti, li ha rivolti a Lui: “è perfetta”, ha detto, “mi piace”. “Ci intenderemo, imparerà a conoscermi.”

Michael ha ricambiato l’apprezzamento con un sorriso, era orgoglioso, lo sentivo.

Poi è seguito un insignificante enorme tumulto di cui sono stata oggetto: Michael mi ha lasciata andare, ha lasciato andare il mio corpo, le Sue mani dai miei fianchi, dalla mia pelle, dal mio cuore scoperto. Io ho toccato l’altro uomo senza sapere davvero di farlo, eppure sentivo le sue braccia, la sua lingua nella mia bocca. Sono rimasta zitta mentre le sue mani mi cercavano, a un certo punto sono stata convinta di cadere e non è stato certo per i troppi centimetri di tacco. Io non ce la facevo.

C. mi ha sostenuto, mi ha avvinghiato, ha alternato le sue mani alla sua bocca, le sue dita hanno afferrato i miei seni ma io non ho sentito niente.

C. è diventato più insistente, io ho tremato al contatto del suo petto contro cui mi teneva ferma. Quando ha trovato la fessura tra le mie gambe, sotto il tessuto messo fuori posto, tra le mie labbra, ho voltato verso Michael con uno spasmo che ha mostrato tutto il mio disorientamento.

Ho sentito il Suo sguardo su di me, mi concedeva ad altri, ho sentito la Sua approvazione quando la mia lingua ha incontrato quella di C. Era già accaduto altre volte dopotutto, mi sono calmata, ho pensato questa volta non sarà diversa dalle altre. Ma questa è stata diversa. L’unica.

L’ultima.

Lo sentivo. Lo sapevo.

Poi ho chiuso gli occhi e ho cercato di non pensare a nulla, Lui, Michael, il mio Michael, si è girato e ha lasciato me in quella stanza alla brama di un altro. Come una vera schiava, io ho scelto di accettare per compiacere la Sua decisione.

Ho rivolto il mio viso verso C. e questa volta l’ho baciato davvero.

C. da allora mi ha. Gli appartengo. Sento la sua volontà in merito. La sua determinazione. Eppure vorrei che non fosse mai successo. Ma C. ne è certo, sarò sua come non sono mai stata di nessuno…

E il tempo è passato.

Mi sono ritrovata sopraffatta da una nausea improvvisa.

Subito, o forse molto dopo, non so bene, ho visto la realtà spalancarsi su di me come un enorme buco nero. Tanta durezza non la conoscevo.

Ci sono voluti giorni. Molti giorni. Con le lacrime agli occhi. Per capire.

“…”

Quando la voragine cessa di attirarmi, il collo prende a farmi male, in particolare in fondo alla gola, dove mi sento contratta e riarsa. Il dolore mi lascia senza saliva. Io non riesco più a guardare la mia immagine riflessa.

“Ti ho adorato come si adora un Dio. Non è mai stato un gioco. C’era un progetto. Grande… Ed ora è finita. Finita... È troppo dura. Io non ce la faccio.”

Mai e poi mai per tutti questi lunghi anni ho immaginato di trovarmi ceduta a un altro. Ma ora non c’è che questo. È così. Mi hai data via.

Ci penso. Tocco il fondo, per la prima volta sento davvero cos’è il vuoto, il nulla più nero.

Mi sento stanca. Di me stessa. A pezzi. Indegna.

Eppure rimango con C.. Ho scelto di restare. Mantengo la parola.

L’ho fatto per Te all’inizio, per compiacerti, non ho ritenuto possibile che altro non ci sarebbe stato. Ma non ho più avuto Tue notizie. Non mi hai mai più voluta.

Non ho più sentito la Tua voce. Il Tuo sesso non è più stato dentro di me.

Non ho mai più avuto nessuna spiegazione se non che questo era il Tuo ultimo volere.

L’angoscia. L’angoscia dentro lancinante. L’angoscia di averti perso, di aver perso tutto. Anche la fiducia. In me. Nella mia capacità di valutare gli eventi e le persone. Considerarmi solo un sesso, una bocca, disponibili, addestrati, perfetti. Ma non abbastanza. Per appartenerti. Quindi, il niente.

Il vuoto.

Il pianto. Appena sola, il dolore e il pianto. La pena dell’abbandono. La solitudine e il peso di un bisogno troppo grande.

E il tempo passa.

Ora C. mi usa. Ne ha il permesso. Ne ha il diritto. Perché?

Io sono sua…





A.




Ho le lacrime agli occhi quando lo sento dire che non è amore ma appartenenza, che il nostro rapporto è condivisione, sentita, reciproca, ma che c’è altro nella sua vita, non è un gioco ma una scelta consapevolmente vissuta.

Guardo la mia amica V. e la invidio. Invidio l’amore che le dimostra il suo M. Invidio quel legame così forte che non avrò mai, invidio la tenerezza che li unisce dal momento in cui si svegliano insieme, il loro trovarsi e scontrarsi per poi ritrovarsi ancora giorno dopo giorno.

Mi fa male questa loro comunione di stupro e sentimenti, senza respiro mi stupisce.

D’altra parte i miei pensieri li tengo per me, lui ne sarebbe solo infastidito, non tollererebbe l’ennesima discussione da parte mia.

Ed io sono cosciente di concedermi sinceramente e integralmente a un uomo che non mi dà nulla se non quello che vuole, ma la felicità che provo nel sottomettermi a tutte le sue esigenze per poi rifugiarmi tra le sue braccia, me lo dice con certezza, ne sono certa, nessuno sarà come lui. Non mi concederò mai a nessuno come mi concedo a lui.

Io sento il mio corpo trasparente e la mia anima in fiamme.




(pensieri per A.)