LAPIS
Ti dico, “fai incetta dei lapis”.
Tu guardi, me e la profilassi asettica dei guanti. Ed è la stessa folgore.
La stessa ansia all’imprevisto, che ti prende.
Nell’attimo, in silenzio.
Gli occhi, i tuoi, all’insù. In interrogazione muta.
Il petto che sale. Lo vedo.
Si riempie e si gonfia. In prolasso di valvola mitrale.
Ché batte, squassa. Si espande impropria.
In doglia dalla testa al ventre.
Nella paura. Clandestina che ti occupa.
In procinto di verbo. In bocca. A dirmi, una giaculatoria di “aspetta…”.
“Fai incetta dei lapis”, ti ripeto.
Ogni punta che sporge, sul fondo scuro del buio, è un ago di luce.
E’ riluttanza che scioglie al dolore.
E’ attrazione. E’ castrazione al diniego. La punta. E’ un’affilata estremità che punge.
Al contatto.
E’ dolo. E’ danno, in acuto sulla tua pelle puerile.
“Fai incetta dei lapis”, ancora, ti arriva.
Sintomo in catartica ossessione. Fitta che ti viene incontro.
A denti stretti. Ché sibilo. Io.
Nel gelo intorno.
Mentre il tuo corpo si fa lento uscio a chiudersi. Ché tu pieghi. Fai messe di aguglie.
Le porgi e ti porgi. Resti giù, guscio al tempo che resta.
In mia incoercibile agnizione.
In mio sollucchero.
Per algolagnia.
La nostra.
La tua pelle che distilla. In-calore.
Stille, in localizzato oltraggio.
(a fabri)