INSOFFERENZA di LUNA
Non c’era niente da fare. Uscii per strada con una strana ansia, e presi la via che portava al porto. Era deserta ma ben illuminata e vivida d’una vita sotterranea tra le banchine. L’orologio non segnava ancora le due. Era immensa la luna e sembrava un richiamo, era percorsa da una mappa di vene come sentieri reconditi ed invitava ad un viaggio irreale.
Maledetta me, come Diana cacciatrice d’una qualche avventura. La solitudine stranamente mi scaldava. L’avevo presa male la sua ultima partenza che non aveva concesso nemmeno il tempo di dare un nome alla destinazione. Le avevo attribuito un segno di stanchezza, e avevo lasciato in memoria grandi ombre e vuoti a suggerirmi risposte, con la conseguenza di una mente che lavorava imprevedibile e disastrosa.
I passi martellanti appesantivano il silenzio della vita intorno, ma erano la mia orchestra di accompagnamento pronta a stridere su una qualche nota imprevista. Il vento di Ladispoli era il mio mantello da strega con il delirio dei capelli al seguito e l’ombra d’una figura che non sembrava la mia. Ero perplessa di una scontentezza acuta nonostante l’amore, e il mare diventava un’insopportabile distanza che mi rendeva ferina. La solida costanza d’attesa non reggeva la forza, la schiava promessa e i divieti e le remore come pietre cadevano a picco, e il corpo ribellava la sua bellezza di donna. Ma nessuno, nemmeno un’altra anima persa concedeva al piacere la mia conoscenza: c’erano angoli bui e miraggi di luci, soltanto.
Cercai: un buco da frequentare.
In un lampo funesto ricordai un posto vicino, dove l’aria ristagnava di respiro consunto per le voci accavallatesi al tempo: l’Olimpo, un’alcova variegata di tristezza oscena e di trasgressione posticcia. Una mano mi aveva guidata una volta, e aveva varcato con me la soglia tra quelle colonne gotiche tutt’altro che chic. Il gioco dei ruoli era sempre lo stesso: uno sguardo indagatore ai nuovi arrivi all’arena, una tassa salata sulla già amara solitudine e una schedatura completa per un inconfessabile futuro nel club. Tutto così fantomatico e fragile per una sicurezza scavata a raccogliere una miscela di semi in germoglio da terra. Il pavimento era una squallida eiaculazione.
Forse sarei entrata, e, in disparte, avrei lasciato la mia mente a frustarsi da sola le insoddisfazioni malsane e le piaghe del cuore, se una voce non avesse iniziato a cantare reprensivamente il mio nome. Il cavallo di Troia aveva aperto i battenti, qualcuno aveva rotto il vaso a Pandora cosicché il dado era tratto, al punto che ancora, allibita, oggi, cancello i pensieri e li sostituisco per darmi ragione. Diego era là, ed era deluso d’incontrarmi dove non sarei mai dovuta arrivare. Aveva un’espressione sprezzante di rabbia, le labbra contratte e serrati gli occhi che pensai volesse prendermi a schiaffi. Prima di parlare inarcai le sopracciglia come a interrogare il Fato, e - ciao - gli dissi, - stasera mi girava male. -
Cercando di non intrappolarmi da sola volsi all’uscita con le mani al colletto della camicia diventata troppo leggera, e, agitata, le strinsi forte al collo. Ero scappata come un’ancella spaurita nella scia del suo ghigno beffardo e lui, con il suo solito savoir faire, mi seguì in silenzio, si fermò quando io mi fermai, e non mi rivolse parola giacché non toccava a lui dire qualcosa.
Michael avrebbe poi avuto il suo tornaconto.
Rimasi senza respiro quando in un soffio mi prese e mi torse una mano, Diego la compresse con forza e la sbatté contro la portiera di un’auto bloccandomi il braccio dietro la schiena. Gli colpii le gambe di tacco con furia sanguigna, o almeno ci provai. Al primo tentativo mi scaraventò per terra e rise.
Lo fissavo sconvolta: la mia insofferenza iniziale ora compiangeva se stessa. Lui con orgoglio barricava difese e d’impulso animale mi stanava paure, mentre io perdevo lo sguardo nella luna riflessa di un finestrino. Maledetta me, pensavo.
Diego, il miglior amico di Michael, lo pregai di riportarmi a casa.
(A Michael e a Diego)