18 giugno 2006

Notte di fine attesa



Lei.

Seduta a modellare il tempo con la notte scesa dentro,

negli occhi, nella musica, tra le luci mentre fruscia

la radio,

nel parcheggio.

Lei.

Per un’ora a farsi nodo,

da sola in auto in attesa, sotto il riflesso dei lampioni,

sotto l’argento,

nel chiaroscuro che seduce l’ombra.

Nell’abitacolo appannato al vento, al movimento

lento.

Di lei, dapprima.

Di loro,

poi.



Poi da raccontare dopo perché solo Lui sa. Prima. Soltanto.

Con le parole fare nebbia, sussurro al ventre

dietro il parabrezza, dove aderente scende

un brivido sottile

ad afferrare il fiato, loro,

che accelerano a tempo, in continuata danza,

in sonata tra le dita

sponda a sponda a fondo scolpita e imposta, negli avalli fatti chiusa.

E come prima è un rombo, in sottofondo un aeroplano

a cavalcare il suono,

a fare salita che dilata e gonfia,

a penetrare l’antro buio, d’ora in ora intorno

così è lo strèpito dei fianchi poi, ansa ad ansa che allarga e inarca

la notte piena, scalando lingue e morsi.

Spalancando bocche e vesti in monotòne note,

strappi,

di “sì” bemolle e “dò” in diesis, soffocati giù,

dabbasso,

in una spira che si annoda e srotola. In lei,

prigioniera.

Lei.

Dopo l’attesa diventata grossa, a trattenere in guizzo la Sua voglia

a lungo stretta,

vibrante e forte mentre scava

arrivando dove si moltiplica lo spazio, dove si distende l’alba e monta. La violenta.

Spianando il tempo.

Riducendolo ad adesso. Ad una traiettoria unica.

Concreta e fisica.

Assecondata dalle mani, di riflesso svelte, per possesso

come spirali ad appropriarsi della mente, delle cosce

divaricate al cambio. All’irruenza. Così fin dentro spinta,

mentre lei ritorna.

Come gola che prepara e poi accarezza, col palato, fino a aprirsi grembo

di ogni odore a fare propria la presenza,

a mettere l’urgenza

affinché travolga ancora. Trascini.

Lei.

A blindare con la lingua,

ad attorniare la Sua voglia, a farne scorta.

Lei.

Ginocchia a terra.

Lei lambisce e cala senza resistenza con la testa sulla punta,

si fa cera mentre cola, onda al bordo, cascata

da arginare in bocca se tracima. Lei

vischiosa e calda

sente poi.



Poi quando finalmente la distanza ha adunato loro il passo,

l’uno di fronte all’altro,

riconoscendo fin nei pori il laccio,

per un istante in cui non si direbbe esiste altro, nessun altro, oltre Lui che viene incontro.

Lui inesorabilmente a sovrapporsi a calco. Pelle addosso.

Pretesa e voce.

Conca d’appartenenza che le avvinghia il collo.

E lei.

Travolta.

Il seno sotto l’insistenza delle dita, oltre la scollatura come pinze a fare morsa

sopra la superficie

scossa,

strofinata e dura,

come Lui vuole e sempre preferisce, fino a farla ebbra.

Lei.

D’una proprietà che acclama tra le gambe

a premere,

accompagnando i fianchi dove lei è acqua,

e acqua a perdere soltanto senza recuperare il ritmo,

mentre Lui è leva che rovescia, sulla portiera con due dita dentro. Due.

E due soltanto.

A sollevarle il troppo tenuto a lungo, i giorni prima e nel parcheggio.

Lei, ora improvvisamente osata sotto,

scopertasi al contatto

sotto schiaffo.

Lei.

Serrata a fiato

corto,

nello sguardo prima che nel tocco,

prima che di nuovo

sia fatta femmina e fessura, sedile che si tende e piega.

Lei ora nervi e corde tese. Sensi

protesi ad ancorare un nome, Lui,

Lui mentre impone, “Vieni!

Ora!

Godi!”

Sfidando di saliva la sua marcia dentro,

d’umore buono,

come febbre fitta tra di loro, contemporaneamente

a fare presa,

a dare fine al gioco. Inizio

al nuovo giorno, mentre di nuovo leva ancora e scivola lei

su un fianco, di lato a Lui.

Lui che guida poi. Dorme lei.

Sicura.




(A Michael)