22 aprile 2006

Breath Play



Lui è chino su di lei, serra le sue dita nodose.

Inietta sangue a comprimere il palmo, artiglia la sua spalla destra, mentre con l’altra gentilmente carezza la sinistra.

Lui è di fronte a lei e la sua presa è salda.

Lui la tiene ferma fra le mani, la sua testa è contro il suo torace. Lui spinge.

Lei contro di sé.

E lei sente l’asciuttezza dura del suo ventre.

Lui le trascina le unghie sulla pelle e lei capisce, la morsa che la scava poi la graffia ma mai sarà rinuncia.

L’ebbrezza sarà un brivido di gelo, ripetuto, finché lei non sentirà dolore e sommessa emetterà un lamento.

Lui lentissimamente solca il fiato, circonda il collo.

Fragile.

Fibra che lui sottopone a una pressione minima, costante. Allarmando il battito. Alterandola in coscienza.

Lui la stringe e la minaccia.

È tensione cerebrale.

La carotide lui sa, è sottile come una radice, concede linfa necessaria. Articola invisibili canali, vitali da estenuare.

Senza indecisione.

Per un attimo infinito.

Senza recedere all’avanzamento di un timore.

Perché lui pulsa. Risolutezza sadica.

Pura.

Terminale.

Lei è basìta, priva di reazione. È in quell’inconsapevolezza che tutto le consente.

Poi la sensazione passa strati di tessuto, e lei involontariamente spasima. Faticosamente mugola mentre lui la tiene ferma, sfiorandola soltanto, simulando un’occlusione che le filtra intensa, senza pietà rendendola afona, per una sensazione reale di pericolo.

Lui la condiziona a impulso.

Lui in piedi davanti a lei e lei è seduta.

La sua testa di nuovo stretta fra le mani, ancora, contro il cavallo dei suoi pantaloni.

Dove lei si perde, nell’odore, nella preparazione dell’amore, lei sente la sua eccitazione sessuale.

Lei ora pensa, alla rigogliosità del pelo quando lui è nudo.

Quando nell’oscurità fitta che l’avvolge, fino a soffocare, lei venera l’aureola che gli circonda il sesso come una santità in voto.

Lui lo sente alla gola e lei ogni volta si rivede, mentre l’osanna, mentre dai testicoli gli striscia al ventre.

Mentre in bocca giacula preghiere al dio di quell’altare, con la vocazione ultraterrena di perdere il controllo, regredendo, sino ai perché che postula una bimba quando l’esplorazione accresce la tenacia.

La stimola.

Alla smania di ogni cognizione.

Finché rintocca l’ora e il cerchio chiude.

Mentre lei strofina il viso contro il sacro marmo cui s’immola.

Volontaria.

Mentre lei lo sente eretto, e lui le scivola di mano nel punto che la predispone debole.

Sul collo.

A lato.

Dove tesi come cavi i tendini annegano i suoi sensi, tra i muscoli già stanchi, al varco della beatitudine.

Laddove lui comprime. Appena.

Quel tanto.

Per cui lei si perde, nel non ritorno. Lei si abbandona, parte.

Seppure solo per brevissimi momenti.

Lei tocca il limite.

Lui osa e affonda, l’estremo appena un passo oltre la follia.

Perché è lui la via su cui lei rabbrividisce. Lui l’asfissia e doma. Lei stringe i denti.

Lei annaspa in sofferenza, si agita convulsa.

Lei oltrepassa il vuoto e, mentre inacidisce il sangue, lei riconosce l’importanza dell’autocontrollo, le fondamenta del respiro.

Mentre lui la obbliga al silenzio lei è confusa, lei brancola nell’estasi, è senz’aria.

Lei si perde nell’angoscia.

S’innerva.

È in iperventilazione.

Oltre gli agonici lamenti, oltre il piacere che ne inghiotte la coscienza, oltre il potere dove lei lo segue.

Oltre i gradini e la vertigine.

Dove lei ripiomba nell’abisso, mentre si obnubila la vista e il suono si attutisce, mentre la nausea rimonta vorticante e dagli occhi precipitano lacrime.

Il suo smarrimento.

La sua paura di abbandono che la naufraga per sempre, finché lui la riconduce in superficie. Lui che la sostiene e sdraia.

Con sicurezza tenendole la testa.

In un atto che li fonde.

Lì.

Dove lei è l’altra, e mentalmente ride in euforia celeste. Mentre la torce seducente il vizio. Quando lui la rende misera, annegata dentro il nulla, sul piedistallo mentre sviene.

Perché lui di lei gode.

Mentre la strangola.

Con un’infinitesimale alterazione psicologica.

Di lei che ora si sdraierebbe nel letame per lui, pur di sentirsi sopraffare ed essere capace di colare tutto il suo essere devoto dentro una supplica finale.

Sino a sublimare.

Ripiegando in sé, espiando, grumi di rettitudine morale, di ansia riprovevole e di rabbia. Grovigli di virtù frustrate, di disagi viscerali e quotidiani.

Così fino all’annientamento.

Finché il gemito che l’apre, la prenda acuto e la divida in spasmi. Finché ogni tormento trattenuto se ne venga contraendosi.

Perché lei di lui si fida.

Molto più che di se stessa.

E così la bestia che è nascosta si rivela, lei la trova. E quello che da fuori si direbbe una violenza, all’interno si dichiara per decoro, quello perduto dalla carne, che in tal modo si riabìlita, si spoglia del travestimento e disàbita la colpa.

Così l’anima ritrova il corpo.

Quando la lussuria è lacerante. Quando il vortice la chiama tra le ombre.

Quelle innate.

Mentre la ragione onnipresente indebolisce.





(A Michael)