20 novembre 2005

VIBRAZIONI


L'immagine è di Steven Speliotis



Suonando e risuonando una musica eterna tra le stanze della mente, la risonanza a raccogliere tutto vibra armonica sulle pareti in bianco nudo della carne.

In disparte, lontano dalle solite note e dagli equilibri di bacchetta, congedato il lussurioso ebano dei fiati, mentre il tempo langue, insieme a te danzo al ritmo dell'anima del cello. La musica calda che hai scritto per me. E ti sento.

Sei l’impeto e il movimento che invoglia un'invocazione aperta. L'angolazione dell’archetto che mi cambia il volto, nota dopo nota, da folle in soffio. Il ponte che mi conduce al cielo, il salto della morte, sei, il valore del canto che monto e rimonto a luci basse intrecciato alle mie mani.

Sei l’avventura che mai chiude, l'attesa che rimane ritmica a fissarmi il cuore sull'interno mentre l'anima smette di supporre.

La vibrazione delle corde, sei, le feritoie lungo il ponticello in cui precipito, il cranio che mi pende quando la melodia di piuma si modella a aprirmi come conchiglia di mare. E sei te, che ho atteso, nell’appiglio del bisogno, mentre dentro me si incuneava a fondo il tempo schizzando via impazzito. Tu incornici i vorticosi affreschi che invento, e sempre tu, ti immergi inconsueto, trovi ancora nuove coordinate da Maestro.

Coraggioso baricentro, sei il passo sostenuto di una danza dentro una stanza buia e musicale quando lascia traccia l'emozione. Il respiro che sembra non finire mai all’unisono col mio.

La sublimazione di un assolo, il mondo primordiale alla finestra, l’oasi di una poesia certa dentro una realtà che è labirinto.

E noi insieme, così vibra, siamo coreografie sommesse e plumbee. Teniamo l’anima incollata alla cordiera della vita, quell'anima che ci annotta e immobilizza, ci assale grave come un suono ricco e coinvolgente. E siamo accordi. Sussurri desueti.

Ad intervalli brevi. Fuori dal sonno.

Tra liberi “la” e austeri semitoni, quelli poi che non disperdo coi pensieri nelle nebbie, ma anzi cerco nell'oscurità arcana di un bosco di distanze.

Te e il tuo melodiare denso, siete atmosfere che mi smorzano in sordina. Raggianti in crescita. Soverchianti nei movimenti. Veloci ed infebbrate. Forti di visione intensa. Nell’anarchia di un volo alto che ha la leggerezza impropria di uno spleen in cui ti amo. Sì, ti amo.

Te che mi sovrintendi e alla fine assolvi tutto.

E mi fai resina sul legno, miele sul pernambuco. Mi tocchi le vocali della voce mentre recito in lucido delirio. Una sorta di ballata. Dolce e amara. Inopinata. In sospensione. Sul crocicchio del silenzio che palpita.

La tensione curva sullo stelo con te sono, la cavigliera d’ebano che aumenta e scende grave al senso. E talora, in profondità, un senso così soffuso, che l’energia che viene è un’estasi solenne a pungere. Dove entro in abbandono. A lume di candela, certo.

Letto ipnotico di note siamo, mosaico raffinato. L'eternità del momento distruttore nell'attimo della liberazione. Mentre io scivolo ai contorni e sciolgo i muri, senza resistenza, ma lieve come le tue dita sullo strumento, sono esasperato vitalismo.

Perché noi siamo, senza teatralità, un suono che si riconosce. Legati da un alternarsi psichico di voce. Sepolti e rifioriti. Con il fiato sospeso.

Mi vesto di diafano splendore, quando le tue scale in quattro corde col lirismo, la tua lucida inquietudine, mi tengono di corsa nell’immobilità in sovrimpressione della pelle. Noi siamo in indiscussa sintonia.

Così sempre, come umbratile cesura al violoncello, in avanguardia sdrucciolevole, tra la flemma ed il sussulto, mi fai di quiete alla tempesta che ti batte il tempo.



(A Lu. N. L.)