26 febbraio 2007

L’attesa, il tormento


Avevo l’impressione di vivere di slancio, lo capivo da come parlavo, le frasi seguivano, i gesti fremevano, senza che ne avessi un completo raziocinio. Incapace di fermarmi, impiegavo il tempo fino a stancarmi, pena altrimenti il rischio di perdermi.

Non mi rimaneva in mente che l’ultimo incontro, vissuto e rivissuto in attesa del prossimo. O almeno di una telefonata.

Ogni squillo mi devastava con la speranza del ritorno, ma durava spesso solo il tempo di un attimo. Il tempo di dire “pronto” e non riconoscerti nell’interlocutore all’altro capo del filo.

Poi, non appena udivo la Tua voce, tutta quell’attesa indefinita, dolorosa, spariva all’istante e mi dicevo di essere stata una pazza per tutto il tempo che era appena passato, finalmente mi riconoscevo di nuovo “normale”. Si placava lo slancio e tornavo a sorridere a tutti, provavo una compassione indeterminata e un riversante senso di fraternità per ogni sofferenza altrui. Ero così felice che volevo che anche gli altri lo fossero, sebbene fosse molto probabile che fino a un giorno prima non riuscissi a sopportare nessuno.

Con la distanza che c’era e in considerazione delle circostanze in cui ci trovavamo, la Tua voce assumeva un’importanza smisurata. Ad udirla, scomparivano dubbi e tensioni e scivolavano via da me frasi che pronunciavo con una tranquillità e una gaiezza che non appartenevano in realtà a quel momento. Ma l’alternativa era soffrire per il senso di colpa di aver bruciato l’attimo, forse l’ultimo, così lasciavo vincesse il desiderio puro. Aborrivo ogni cedimento e mi sforzavo di tenere il legame sempre teso verso quell’ideale di perfezione in cui per Te lo colloco. Era sempre come lasciarmi fare, per l’ultima volta. Per me non esisteva che la Tua presenza o la Tua assenza.

Tutto il tempo che intercorreva nel mezzo, vivevo nell’attesa, senza un pensiero stabile che non fosse rivolto a Te, senza un vero appagamento. Tant’è che, più volte, mi sono domandata se sarei riuscita a godere ancora. Ero colma di un’energia febbrile, travolta da una quantità diffusa di emozioni e persone e momenti, a cui non riuscivo a dare un ordine. Ero semplicemente ghermita dalla realtà di cui mi circondavo, spesso dolorosa, per contenere il dolore più grande che mi premeva dentro. E poi, svanita l’euforia del momento, me la prendevo con me stessa per essermi lasciata andare, fosse stato anche per poco, dopo tutto mi appariva sempre inaccettabile. Sentivo di perdere qualcosa in quelle dimostrazioni di calore. Sentivo di toglierla a Te.

Ero spesso appressata da un terrore senza definizione, temevo una precipitazione improvvisa degli eventi, la chiusura delle nostre possibilità, la sopravvenienza di un qualcosa – più di quanto già non fosse – che avrebbe impedito il riavvicinamento, che avrebbe potuto ostacolare la Tua chiamata o l’atteso incontro.

Ossessionata ponevo ripetutamente a confronto il mio desiderio con l’enormità di un qualche evento tragico, di cui mi immaginavo sempre vittima, e ogni volta per misurarne la forza definivo scientemente il prezzo che ero disposta a pagare per dirmi Tua una volta ancora.

L’istante in cui avevo sentito squillare il telefono, tornava ad assillarmi durante il giorno. Riavvertivo l’elettricità del cavo, la velocità della mano sulla cornetta, il “pronto” carico di aspettative e la Tua voce.

Ero presa dal panico ogni volta e ogni volta provavo uno spasmo di felicità inconsulta. Il solo pensarti diveniva simile a un orgasmo, a un vero e proprio piacere fisico.

Poi, subito dopo averti parlato, in quella gioia scorgevo già la fitta del dolore futuro. Mi spossava una stanchezza da cui non trovavo riposo, sentivo di essere stata appena felice e di dover attendere molto per poter esserlo ancora. Non ero che tempo che mi passava attraverso. Non ero che attesa.

Soffrivo, e sarei voluta fuggire da quella sofferenza, ma il vuoto che sapevo sarebbe seguito, il non aver più nulla da attendere, mi pietrificava, mi sconvolgeva, e ogni volta tornavo a scegliere la maggiore sofferenza che era il non sapere se la mia attesa avrebbe avuto o meno una fine.

Ancora, non ero che tempo che mi attraversava.

Ogni oggetto che mi circondava mi ricordava un Tuo gesto, una Tua parola. Componeva un ricordo la cui forza e la cui sofferenza non riuscivo a paragonare a nulla.

Vivevo in una sorta di torpore, in cui ogni piacere e ogni dolore – seppure inseguiti – avevano il solo compito di narcotizzare quella durata imprecisa. Tutto era tempo che trascorreva con un’angoscia crescente, tanto più si allontanava il giorno in cui per ultimo ti avevo sentito. La mia fiducia, salda, come poche cose nella mia vita, sembrava anch’essa sul punto di non riuscire più a bastarsi oltre, e se mi convincevo di percepire l’abisso dell’abbandono, nulla sapeva placare la mia ansia.

Ci sono state innumerevoli notti insonni. Non riuscivo a tenere il conto delle torture di una evenienza simile. Giungevo a pensare di poter morire pur di arrivare al termine di quella passione, e così mi ritrovavo di nuovo unita a Te, in un principio di certezza e di abiezione.

I giorni si alternavano confusi, talora mi rispecchiavo nelle vetrine lungo la strada, e, non potevo farne a meno, tessevo la trama di infiniti nostri possibili incontri, rivivevo un appagamento totale, al punto da isolarmi per avere intorno a me solamente il silenzio e il tempo. Così ti rivivevo e, finiva che entravo nei negozi e acquistavo lingerie e capi in prospettiva di una prossima volta, godendo a fantasticare, sentivo di fare ancora qualcosa per Te.

Poi, ritornavano i giorni in cui voltavo la testa davanti agli stessi negozi, letteralmente li rifuggivo, in preda a una sofferenza che mi abbacinava, una sofferenza che però non è mai stata rabbia. O odio. Mai. Una sofferenza che dopo, sapevo comunque andarti in dono.

Talora, mi sembrava di cogliere un significato nuovo in un ricordo, e inaspettatamente mi sentivo grata per questo.

Avvertivo un dare reciproco che sovrastava il tempo. Un esserci l’uno all’altro, indistinto, ma presente. Finché non immaginavo un deciso impedimento, uno qualunque, che certo “qualunque” non poteva essere e mi laceravo. Odiando quella lacerazione e amandola al tempo stesso. Rivivevo cento volte quegli ultimi momenti, quelle parole e quei gesti, rimanendo fissa in quella tensione dolorosa così legata al vissuto di prima. Vivevo solo di quello che era stato e cercavo di riaverlo, riattraversando gli stessi luoghi, incontrando le stesse persone, ripercorrendo gli avvenimenti, i momenti, nell’assurda convinzione che l’intensità dell’appartenenza che provavo avrebbe ricreato le medesime circostanze.

Doveva ricrearle. Non potevo credere che quell’energia si sarebbe dispersa senza giungere a Te. Doveva arrivarti, me ne convincevo all’inverosimile.

Volutamente uscivo un certo giorno e proprio a una certa ora, così come l’anno prima sapevo di aver fatto con Te, e questo mi rassicurava. Avevo l’impressione di poter controllare meglio le mie emozioni. Di potermi di nuovo abbandonare ad esse. Era un modo per servire Te, nonostante tutto.

Altri giorni faticavo a uscire, non volevo, temevo che mi avresti cercata proprio in quel frangente, quando per mia colpa non avresti potuto trovarmi. Preferivo così perdere il resto e vivere solo per aspettare. Poi, una delle tante volte in cui credetti di essere arrivata al punto di rottura, decisi di partire. E ogni istante che è seguito, mentre mi allontanavo, l’ho vissuto come l’ultimo sopportabile, finché sulla via del ritorno ho provato una felicità incomparabile.

Inaudita era la passione che mi bruciava dentro.

Il tempo tra l’andata e il ritorno mi sembrò un’agonia atroce.

Ero posseduta da Te.

Mi sembrava di lasciare traccia di me ovunque.

Tutto era una sindone dolorosa e estatica della mia adorazione e della Tua assenza.

Ero cosciente di passare da stati di tranquillità a momenti di panico indefinito, ero consapevole di non sapere più dove stessi andando.

Spesso, quando mi svegliavo al mattino, il corpo mi doleva dappertutto, il pensiero di Te mi assaliva appena finiva il sonno. Mi tornavano in mente particolari improvvisi e nulla aveva più senso, mi sembrava che non ci fosse altro progetto per cui valesse la pena scoprire il giorno. La mia mente era continuamente occupata da Te, anche se continuavo a riempirmi d’altro.

Ho passato ore interminabili a masturbarmi o a chiamare sconosciuti con il Tuo nome.

Ho preso a pregare.

Ho visto il Tuo volto in ogni altro volto e l’ho desiderato e l’ho odiato. Loro non erano Te, ma Te mi ricordavano troppo.

Pensavo alle piccole – grandi cose che non conservavano più la stessa importanza e mai il dolore mi è parso così diverso, così inutile quello fisico davanti a ciò che mi squarciava dentro.

Il tempo della scrittura non ha corrisposto più alla mia vita. Ho riversato fiumi di parole altrove, per colmare tra le righe, per altri, quel tempo che mi percorreva all’apparenza senza rendermene conto. Ho sparso pensieri e desideri e vanità senza preoccuparmi di nulla, oltre le mie necessità. Non ne provavo vergogna, questa la provo ora, che la “normalità” mi è vicina. A rileggermi, fatico a confermare mie le false dediche.

Poi, alla Tua voce sul ritorno, ho pianto con la disperazione che mi divorava il corpo, d’una gioia impronunciabile e svuotante. Pareva irreale, eppure dava ad ogni cosa il suo senso. Dava un nome al mio dolore. Il mio dolore non inconsapevole, ma voluto al punto da risultare folle.

Ogni cosa ora mi sembra lontana, di un’altra donna. Ora so quanto sono stata vicina al limite, quello che separa l’uno dall’altro, ma al punto di sentire di superarlo. Tutto il mio corpo ha misurato il tempo e più che mai ora so, che si può essere capaci di tutto, anche di ciò che si trova insensato negli altri, perché io stessa vi ho fatto ricorso. E questo, mi ha unito di più alla vita, e a Te, con la convinzione che viversi così sia un lusso.



(A Michael)