02 agosto 2005

2 AGOSTO 2003


L'immagine è di Addam Idiom




Un re-writing di sensazioni che, oggi, sento di dover ricordare.
Perché purtroppo sono recidiva. Sono debole.



2 Agosto 2003, scrivevo:

Potrei continuarlo. Potrei finirlo qui. Intanto è questo!


Non è che un incontro come gli altri, mi ripeto, mentre le ore del giorno sembrano svanire prima del solito, e la notte farsi più cupa e veloce. Ho il fiato corto, ho corso lungo il marciapiede dal parcheggio per qualche isolato fino ad arrivare al suo appartamento.
Giunta davanti alla targa argentata che porta su scritto il suo nome, mi sento tremare le gambe.
Possibile che sei ancora così fragile, mi dico, eppure la tua esperienza dovrebbe averti fatto acquisire sicurezza. Penso all’ultima volta che l’ho visto, una serata da Sonia tra le luci sgargianti dei lampadari di cristallo, tra un flauto e l’altro di delizioso spumante che ne esaltava esuberante il perlage come il mio riso da bimba idiota e poco cresciuta. E adesso rivedo il suo sguardo immobile fissarmi con disapprovazione, come se poi ne avesse il diritto.
Eppure ce l’ha! Ora mi rispondo. Dopotutto sono qui, sono giunta di corsa al suo appello imprevisto, e sono pronta ad attraversare il giardino e ad entrare in casa sua per la prima volta da sola.
Da sola, senza Michael.
Suono. Sembra passare un tempo infinito prima d’udire la sua voce metallica oltre l’interfono. Per un momento penso di tornare indietro, di cancellare quella decisione assurda con cui senza neanche pensare mi sono precipitata in strada in direzione di quella casa in cui non dovrei desiderare d’entrare.
- Sono Valentina, sono appena arrivata. Posso entrare?
Il cancello automatico si apre ed io come un automa attraverso l’inferriata che si va pian piano schiudendo. Cammino fino al patio, lentamente, impostando i passi come se sfilassi su quella passerella composta da grandi pietre quadrate incastonate fra l’erba, cammino con il pensiero che Lui sia lì, e mi stia guardando.
Ma perché sono venuta? Che ci faccio qui? Perché il mio cuore non riesce a placare la sua ansia? Perché la mia mente mi tormenta come se i suoi occhi adesso fossero la mia metà? Perché?
Trovo la porta di casa socchiusa, entro inarcando ancora di più la schiena come se volessi offrigli le curve che porto sotto quel vestito striminzito e nero, scelto per l’occasione.
- Dove sei? - Chiedo incerta di essere lì, non trovandolo ad aspettarmi nella sala che s’apre sul corridoio davanti all’entrata.
- Raggiungimi -, sento dire. E sembra un ordine. - Sono fuori sulla terrazza posteriore.
La voce è ferma, come sempre dacché la conosco, e mi induce a tremare ancora più forte, a darmi coscienza del fatto d’essere entrata, per la prima volta, da sola, a casa sua.
Lo raggiungo velocemente tirando verso il basso l’orlo del vestito, che ostinatamente sale. Forse sono ingrassata? Mi angoscio, mi sento insicura. Mi riprometto di controllare appena possibile la taratura della bilancia.
E poi è davanti a me. Mi guarda. Non un sorriso mi concede, mentre io invece inevitabilmente già sfodero i denti bianchi ed uno sguardo adorante che non è solo frutto della gioia per l’incontro ma del nervosismo che sempre più mi attanaglia le viscere.
Mi avvicino, intenzionata a baciarlo sulla guancia, così da rendere più usuale quella visita che non necessariamente implica dell’altro. In fondo, mi ha solo chiesto se potevo passare, mi ha solo detto che aveva una cosa per me e che mi sarebbe piaciuta.

Non dico una parola, non mi riesce, e continuo invece a mantenere quel sorriso di strana timidezza mentre gli schiocco un bacio sulla guancia a cui non risponde, e che allo stesso tempo stordisce me riempiendomi le narici del suo profumo. Lo sento in gola quell’odore forte, acre, come se avessi incosciamente leccato il suo sudore.
Non so cosa dovrei pensare, non so cosa si aspetta da me e se si aspetta qualcosa. Non so neanche perché ci penso in questo modo ossessivo.
Rivivo, in un attimo, tutte le volte che ci siamo incontrati, quanto Lui sappia di me, cosa io conosca di Lui. La bilancia si equipara, entrambi perfettamente coscienti delle nostre pulsioni ma mai, mai!, uniti a condividerle insieme. Le ragioni hanno radici nell’orgoglio e nella lealtà tra due amici, una pena a cui ora è meglio non pensare. Non voglio pensare a Michael.

Lui intanto mi guarda. Solo mi guarda. Non mi parla.
Continua a guardarmi insistente e non dice una parola.
Il suo sguardo lo sento indugiare sul mio corpo, lo sento che mi scruta, che mi fruga lungo l’orlo rialzato del vestito. Sono in un fiume in piena che m’inonda, mi sento travolgere dai suoi occhi. Vacillo sopra i miei tacchi alti e neri che ho indossato consapevolmente per provocarlo. Che ho indossato e scelto per Lui. Già! Per Lui.
Lentamente si avvicina, mi prende per un braccio, non stringe, ma leggermente mi attira a sé e mi spinge a seguirlo. Al contatto, al gesto, il mio cuore impazzisce mentre io non sono più capace di pensare. Lo seguo e basta. Non voglio altro, non potrei impedirglielo.
Mi guarda. Mi guarda ancora e lo sguardo è duro, deciso, come se ormai per tornare indietro anche solo d’un passo non ci fosse tempo.
Vorrei che mi baciasse.
Vorrei che mi scuotesse dal torpore dell’ipnosi che mi ha addormentato la mente. Io che penso sempre, io che penso troppo.
Vorrei baciarlo, abbracciarlo. Non posso.
Vorrei dare sicurezza a quella fuggevole stretta al polso che ci tieni uniti.
Ma lui mi guarda solamente.
Non parla e mi conduce esternamente oltre la veranda, alla vista d’una Roma già incendiata dalle luci della notte.
Lo seguo e basta. E sussulto alla vista del grande letto ovale che ha fatto sistemare sotto il gazebo a cielo aperto, sussulto a quella sfacciata evidenza della sua perversa concezione della vita, l’ostentazione pura d’un edonismo esistenziale di cui si fa vanto. Sussulto, e subito sento farsi più salda la sua stretta al polso.
Mi sento persa in quella stretta, e istintivamente mi faccio più remissiva. Più docile lo seguo.
Non mi parla.
Vorrei che mi parlasse, che dessimo fuoco alle parole trattenute dai pensieri che ci hanno condotto lì, adesso, insieme.
Non dice una parola, non un cenno al perché di quell’incontro.
Non dice niente, e non credo lo farà.
Il mio corpo è una corda protesa all’ascolto d’ogni gesto, d’ogni sua stretta più decisa, d’ogni sguardo che in monito continuamente mi rivolge. Il mio corpo non lo sento già più, è solo una risposta pronta alla sua mano che ancora mi guida attraverso quel giardino verso il laghetto artificiale, verso la statua d’una donna in bronzo prostrata nella posa che al nostro passare sembra piegarsi in modo intenzionale.
Di nuovo mi guarda, con i suoi occhi chiari.
Allunga una mano verso il mio viso e, sempre trattenendo con l’altra il mio braccio, traccia il contorno delle mie labbra schiuse.
Penso voglia baciarmi. Non lo fa.
Segue con l’indice leggero la linea della bocca, scende lungo il mento sulla gola, sfiora l’incavo del seno oltre la scollatura.
Continua a guardarmi. Mi fissa. Mi sento penetrare dai suoi occhi.
I suoi occhi scendono lungo il vestito, lungo l’orlo sollevato sulle mie cosce nude. Nude in questa estate torrida, senza neanche un velo di calze per proteggerle. I suoi occhi scendono, il suo dito li segue e tocca la mia pelle, che istantanea brucia come marchiata a quel contatto.
Tremo. Il desiderio mi pervade. Sono un fremito e chiudo gli occhi.
- No! Guardami!
Sono le poche parole che pronuncia, e la sua voce già mi scioglie.
Cerco di darmi un contegno, con la mano libera stringo forte un pugno e sento le unghie trapassarmi la carne, riportarmi al presente. Lo guardo. I suoi occhi chiari mi trovano il fondo.
Mi sento in balia della corrente, non so più chi sono, non so più di chi sono. Solo la sua stretta a dirmi che esisto, solo i suoi occhi a indicarmi una luce che non pensavo avrei riconosciuto.
Sono ferma davanti a Lui, appoggiata ad un cancelletto del giardino ed energica stringo ancora il pugno.
Vedo i suoi occhi serrarsi più chiusi, costringere una morsa che deforma i pensieri.
Ho paura di me stessa, ho paura di quello che voglio.
Io voglio Lui. Voglio essere sua. Sua solamente.
Adesso.

Non appartengo a nessun altro. Non appartengo nemmeno a Michael. Non sono più sua.

Ho paura.
Lui mi guarda.
Vorrei che mi baciasse, ma non mi bacia.
Non voglio che Lui.
Ho paura del mio corpo, del mio desiderio che ora pulsa muto il suo grido di sentirselo contro. Ho paura, lo voglio. Ma lui non mi tocca, lui non mi sfiora.
Io tremo.
Ma come può succedere questo? Come può essere che ora sono nel suo giardino pronta a qualsiasi cosa che fino a ieri avrei detto impossibile? Come può essere che è bastato mi chiedesse una volta di raggiungerlo? Come posso tradire Michael? Michael che è la mia certezza, il mio bozzolo di difesa e perdizione.

Sento il suo sguardo insistere sul corpo.
Mi sento spogliare.
Lo sento prendermi con la mente dove le mie remore più intime cedono al di là di ogni desiderabile contatto.
Mi avvicino, mi offro, m’inarco a Lui così che la mia voglia trovi una via libera e lo raggiunga.
Mi avvicino, allungo una mano per sentirlo, voglio stringermi a Lui.
- No! - Mi intima.
Io arretro.
Resto ferma ed il suo sguardo preme, mi cerca, mi chiama, mi ordina di rimanere immobile e di lasciarmi guidare.
Ed io divento bambola nelle sue mani.
- Apriti! E masturbati! - La sua voce è dura.
- Come? - Oso dire, allibita. Sorpresa. Non sono pronta.
Mi da uno schiaffo. Ed io abbasso lo sguardo, piego la testa, mi sento colpevole. Mi sento insicura.
- Apriti! Adesso…
Ed io allargo le gambe, incerta, timida come fosse la prima volta. Ma non lo è, non lo è. Allora perché tremo?
Mi apro e m’inarco di più verso di Lui, verso il suo sguardo, così che mi possa vedere, così che possa accertare il mio impegno. Sento che devo recuperare terreno, è la sua prima richiesta e l’ho già deluso.
E mi apro, sposto di lato il finissimo pizzo del perizoma nero e mi tocco, mi bagno, scendo con le dita dentro a cercare quel desiderio che sale per Lui. Mi accarezzo e lo guardo, quel gesto così intimo che sono solita fare di continuo per me, per Michael, per altri, ora mi sembra nuovo. Ora mi sembra più intenso, più vivo. Ora che mi sento sua.
Lui non mi parla, non mi tocca.
Lui solamente mi guarda ed io continuo a sfiancarmi il ventre mentre il mio respiro cresce e si fa più veloce, mentre incede stravolto al gonfiarsi della clitoride tesa verso di Lui.
Sento le mie dita raschiarmi il fondo. Sento la mia voglia farsi liquida e scorrere. Sto per venire, il mio sesso si contrae, ma Lui m’afferra, mi piega il polso e lo blocca dietro la mia schiena.
- Ti farò impazzire. - Dice. - Scoprirai che nessuno ti ha mai fatto godere come farò io. Che nessuno ti ha mai fatto soffrire quanto saprò fare io. Nessuno! - Ribadisce. - Nessuno! Ti sentirai squarciare la pelle e ne vorrai di più. Ti sentirai morire e non chiederai altro. Resterai segnata e mi pregherai di continuare. Farai tutto quello che ti dirò. Sarai pronta a rinunciare a tutto! A tutto! Non ci sarà altro che conterà per te. Oltre la mia voce, oltre le mie parole. Oltre quello che vorrò tu faccia per me. Ti piacerà. Ne godrai fino a implorarmi di farti scorrere il sangue. Ti compiacerai, ti sottometterai, e non riuscirai più a godere in altro modo. Sarò il tuo tormento, sarò l’agonia del tuo piacere più perverso.
Sono un lago.
Sono aperta, sono fradicia, e mi sento invasa da un emozione devastante.
La mia clitoride è ritta e implora. Io imploro. - Ti prego toccami, ti prego scopami, come vuoi tu, io farò tutto quello che vorrai.
Sono inchiodata in quella posizione, sono spalancata, appoggiata contro il cancelletto in ferro battuto e fremo. Fremo!
Lo voglio, la mia mente non pensa ad altro. Lo voglio. Ma Lui non mi tocca, non mi sfiora.
Sono appesa ad un desidero che va rompendo tutto ciò in cui finora credevo. Il mio corpo più non m’appartiene. La mia testa è ormai lontana e persa.
Io sono persa. Io lo voglio.
Vorrei toccarlo, farlo godere. Vorrei dimostragli d’esserne capace.
Lui me lo impedisce.
Lui gode a vedermi cedere.

Le sue dita prendono la clitoride, precise, veloci, s’intrecciano e s’irrigidiscono, serrate in una morsa sempre più forte. Mi titillano per un attimo soltanto con piccolissimi movimenti, e mi stringono, duro, mi stringono e mi soffocano d’orgasmo in una stretta che strappa quella carne pulsante e scoperta dei suoi nervi tesi al massimo. Poi Lui interrompe e la mia voce grida, si lacera al dolore. Il mio sesso esulta, esplode, il fiume delle viscere sgorga come da una foce, e la testa è attraversata da spasmi che spalancano indietro gli occhi al cielo. Un orgasmo inaudito, sussultorio, che mi scuote intensamente, mentre Lui tiene la sua mano chiusa sul mio sesso che trabocca, che mi estenua.

Rilascia poi il mio polso ancora stretto e ripiegato sulla schiena.
Io non l’ho toccato.
Almeno vorrei stringerlo.
Lui non vuole. Lui non me lo permette.
Lui gode a vedermi soffrire.
- Adesso vai. Ti cercherò. - Mi dice, chiudendo quell’incontro quando ancora sono troppo stordita per camminare. Fatico a muovermi. Barcollo, arrivando all’uscita.

Sono in macchina, incapace di partire.
L’ho appena lasciato, e non so se e quando lo rivedrò.
Ha detto che mi cercherà.
I suoi comandi di routine a mantenere le distanze già m’avviliscono. Lui già mi manca.

Non so cosa ho fatto.
Non so quello che farò.

Ma ora non m’importa.




(A Michael, a ricordarmi delle conseguenze)