(Una storia d’altri, che mi ha toccata e sconvolta, per la violenza. Così oggi, qui, per lei, Didi, che vorrebbe. Per il suo coraggio, per la sua forza.
Io che allora pensavo avrei rinunciato, a me, perché non riuscivo a capire. Quello che certo ancora non posso.)
Ci sono vite in cui non si vorrebbe entrare.
Parole ripetute, assillanti. Parole ossessive che non sanno lasciarti.
Ci sono parole solo parole che a dirle se ne fuggirebbe.
Lei che non riusciva a tacere.
Lei che parlava, parlava.
Piangeva.
Le sue mani un fremito a torcere. Le sue dita salivano i fianchi, premevano in fronte, scendevano in bocca.
Lei stremava le unghie. Divincolava gli occhi.
A guardarla sembrava sudasse. Il racconto le contorceva il corpo.
Piccola, io le dicevo, amore…
Erano momenti ritornanti, ripetutamente mi spingevo per accoglierla, le aprivo le braccia. Lei tremava.
Era lì, davanti a me, eppure chissà dove, lontana.
Le stringevo le mani, le baciavo la bocca. Le parlavo piano.
Sottovoce.
Le mie labbra dicevano “bella”. “Vedrai ora passa”.
Io la sentivo, mi sentivo io.
In fondo era la stessa scelta. Ma la storia assolutamente diversa.
Inimmaginabile, spietata.
Una donna maltrattata, consumata dall’isolamento e dalla tortura.
E lui l’avanzo dell’ignobile era sparito. Dileguato. Il suo nome non era mai stato. Era introvabile.
Latitante, il bastardo.
Lei non sapeva chi fosse, da dove venisse, si era fidata. Le parole hanno potere, lei vi ha creduto, ceduto.
Le parole, le parole.
Le sue, era andata così:
Lei si prepara, prepara la cena. Lui invita un amico.
Una prova.
Un uomo di cui non sa il nome. Per provocare.
Lei.
Lei usata per portarla a farlo infoiare.
Il figlio di puttana!
Ma lei si prostra, rassetta addobba, compra un vestito, lui sceglie per lei.
È nera come la notte, scollata come un argine rotto. È la tentazione allo sguardo, un orlo che pare scucito.
Lei cucina, apparecchia, ogni cosa è per lui. Pronta. Dal vino alla sala.
Persino i cuscini dovunque dicono certo, tocco di raso e pelle nera sopra al divano.
Lei è felice, eccitata. Lui la bacia, lui la induce più calda.
Oddio, se non fossero poi le sue calze strappate, il sangue a colare, il nero sugli occhi a levare il sorriso.
Oddio, la mia piccola lola, una lolita indifesa nella tana del mostro.
L’amico presunto eccolo, arriva, lei s’agita. Lei l’accoglie, è cordiale, ma di lui già sa lo sguardo immediato, sfacciato, lascivo, lui da subito la tocca in disparte.
Lei è scossa, ma pondera il gioco. Solo si tiene lontana. Non pensa.
Non crede.
Non vuole vedere.
Il cuore le asciuga la saliva in fondo alla gola.
Lei cammina sui tacchi e si sente osservare, lui le fruga le cosce oltre la piega che sale.
Lui ci prova, divaga. Lei scappa, è confusa, ne parla con lui. Confessa.
Non può.
Lo dice a lui, quell’uomo. Il maniaco.
Il bastardo che ride e la scuote dicendole “scema”.
Oddio povero amore.
Cazzo! Come vorrei quell’uomo sentirlo guaire, ancora adesso, sputargli in faccia e dirgli, con la calma che gela e nasconde il furore, “te lo giuro, io ti farò soffrire”.
Quel piccolo fiore, oddio…, ma adesso è finita, respira, ricomincia la vita.
Ricomincia la cena, lei si fida li serve.
Anche se l’ombra le resta, lui insiste, la insegue. Il demonio vi coabita insieme. Lei lo vede mentre lui le tiene la mano. Loro ballano insieme.
Il suo lui la cinge in un ballo con l’altro.
In quel ballo di morte.
Il ballo che la schiaccia veloce di spalle contro il mobilio.
Il ballo che le toglie il respiro, quando lui, la sua unica fede, la raggiunge da dietro.
Tenendole i polsi strappandole un grido.
Con una lotta infelice che finisce sconfitta, con una resa che capitola certa, sul tappeto davanti alla cena perfetta.
Uno l’inchioda, l’altro le scopre le cosce.
Le calze strappate, uno schiaffo se urla.
Il pianto che viene, sommesso e si strazia, impregna di rabbia il tappeto di lana. Lei si consuma, lei struscia la vita.
Lei impara la storia più grezza, su quel tessuto a cui ultimo spira.
Il suo viso è quel suolo, lei non sente che quello. L’impiantito raccoglie il respiro, c’è odore di vecchio, da troppo lasciato in sospeso.
La stanza rabbuia, la paura l’inganna. La claustrofobia le serra la gola, lei non sa più nemmeno se urla. Uno la scopa, l’altro lo succhia.
Lei non sente, non prova che il nulla.
Lei non cerca, non vede l’uscita.
È la morte lei pensa.
Quando di lei non resta che carta ad assorbire il delitto, quando di lei non c’è arto da dirsi più intatto. Loro la pestano.
Loro la rivoltano di sopra di sotto.
Fino alla gamba prolungata ad un tavolo, legata, mentre l’altra divarica inerme bruciandosi al caldo, del termosifone che aveva pulito.
Mentre le braccia non sono che pale a una maniglia lontana per sbarrarle la porta.
Oddio lola, lola. Lolita mia.
Anima crocifissa, martire incompresa.
Lei solo gli diceva “Tua”. Lei solo sperava fosse quello che mancava.
Lei gli diceva non sento nient’altro, sei tu che mi porto ora dentro.
Poi le sue gambe stirate come assi a un cavallo da tiro, al giogo, e le sue mani incordate alla trave del ceppo.
Le sue parole mi biascicano in mente, ancora, mi smorzano il respiro lo riportano indietro.
A lei.
Lei che ricordava d’averlo guardato, d’averlo implorato pregando l’assurdo.
A lui.
Lui che la colpì non tollerando il ritegno. Il mostro.
Lui che la colpì, la percosse, la batté fino a ucciderle il pianto.
Quando il dolore più non conosce suono.
Quando il morbo è pazzia, ha la forma d’un astuccio indifeso. Del piccolo cucito. Di tutta la miseria delle mani di un uomo che non conosce pietà.
Oddio quelle parole, la sua voce, la crudeltà che non si può dire.
L’orrore la folgorò come con punte d’ago infettate e infinite che lente le entrarono dentro.
Misericordia, come non ha tremato la terra quella notte?
Adunche, le capocchie di spillo, le torture voodoo.
Rabbrividisco, ne risento le grida, il freddo che schianta le ossa.
Il ballo delle forbici al ventre che nel silenzio l’annienta, le cattura la pelle.
Agonica.
Porzioni neonate che sfregiano a vista.
Il sangue.
Il candore ora solo dolore.
Lei che aveva scelto chanel. Quella sera, per lui.
Chanel....
Miserabile demonio. Grido d’incontrarti un giorno. Tu non sai cos’è il tormento.
Tu non sai qual è la paura di respirare a fondo se ti lacera il corpo.
Tu non sai cos’è il tempo. Un chiodo che ti trafigge il sesso ogni secondo.
Tu non sai dell’odio la distruzione che non chiede consenso.
Tu non mi conosci e non sai di chi con me senza pensarci t’appenderebbe al cappio.
Quegli squilibrati la cucirono usando un ago chirurgico. Un uncino le passo da parte a parte, le bucò la carne, la ridusse a sangue, a un brandello.
A un pezzo di bambola morta.
Lui ne fece manichino informe. L’abominio della sua mente.
Le sue farfalle minori risalirono sopra le grandi, imbastite, furono suturate fino a chiudere il tutto.
Unite.
Lungo le cosce la pelle.
Il male a trattenerle il fiato.
Le gambe spalancate a squarcio.
L’oscenità dei dettagli mi ha tolto la fame il credo e la voglia per un tempo che ancora non passa.
Lei partì.
Cambiò città, paese.
(Ed io non so ormai che il nulla, tranne che quel giorno ricade pietoso tra questi.
Col freddo d’una primavera insana.
Ma almeno ora mi sogno. Di saperla felice.)
(A Didi)