03 aprile 2005

LISIANTHUS


L'immagine è di Mike Schaal.



Eri lì. Proprio all’angolo. Ti vedevo con la coda dell’occhio. Ti vedevo in attesa che qualcuno arrivasse. Bello al primo sguardo. Candido. Di disarmante freschezza. In te la purezza prendeva forma. All’istante così mi sei sembrato. Innocente.

Ero ferma a un semaforo. In auto. In attesa del verde. Stanca dalla noia. Tra monotonia e solitudine. Nell’accidia insopportabile. Una pesantezza dell’esistere che ingrigiva ogni accenno di pensiero e ogni possibile idea s’affacciasse alla mente. Le tue forme. Le tue incantevoli forme. Erano belle da impazzire. Ed io ero sola. Ero annoiata. Avevo bisogno di te. Subito! Per me eri un dono incredibile. Stupendo. Troppo desiderabile. Giocavi col vento ondeggiando leggero come a passo di danza. A pochi passi da me. Dai miei occhi rapiti. Dalla voglia. Quello stesso vento che t’accarezzava poi lo sentivo su di me.

Eravamo così vicini. Ho accostato l’auto. Eri meraviglioso. Perfetto. Eri lì al mio cospetto come in offerta. Solo una stupida non si sarebbe fermata a guardarti. Solo una stupida si sarebbe lasciata sfuggire quell’occasione. Il tuo candore irreale. Eri una presenza eterea. Restai a fissarti mentre ballavi, avendo paura che scomparissi come se non fossi mai esistito. Non ti volevo lasciar andare. Già ti tenevo. Con lo sguardo ti prendevo. Ti stringevo. Ti portavo ancora più vicino. Poi s’è alzato il vento. E la mia paura di perderti è cresciuta. Folate d’aria notturna ti attraversavano rendendo più veloci i tuoi movimenti. Sussulti di vita nella notte. Ad attirarmi ancora più forte. Tu a me. Ingenuo. Innocente. Vedevo ancora più chiaramente la tua innata indole. Il tuo aspetto dolce m’appariva sempre più languido.

Scesi dall’auto. Ricordo i passi. Decisi. Il desiderio. Ti volevo mio. Fra le mie mani. Per una notte soltanto. Ci ritrovammo così uno di fronte all’altro. Ma tu non eri solo. Lì. Dietro l’angolo. Eravate in tanti. Inverosimili. E un uomo ad accudirvi attento. Un uomo ad osservare quel tuo balletto insieme al vento, ad aspettare che io mi avvicinassi. Era un nero. Solo una frase ha pronunciato: “Si chiama Lisianthus, lo vuoi?” Tu hai smesso d’agitarti. Ho creduto che trattenessi il respiro, che restassi ad ascoltare la mia voce. Ti ho guardato. Ti ho sfiorato. Ho detto: “Si!” Lui ti ha dato a me. L’ho pagato molto bene. Mi ha sorriso soddisfatto. Ha lasciato che ti portassi via. Lontano. Per qualunque scopo io t’avessi scelto. Ho voluto sentirti subito. Le mie dita sulla tua pelle. Velluto. Puro e liscio. Poi ho avvicinato le mie labbra. Il tuo profumo mi è salito dentro lasciandomi senza fiato. Come travolta da un’onda. Ero sbalordita. Stordita. Ero ubriaca. Ti amavo. Ho aspettato che passasse lo smarrimento. Ferma in mezzo alla strada. Le mie mani su di te.

La tua pelle liscia. Ti tenevo sfregandoti sotto le mie dita. Camminavamo l’uno fianco all’altro. Ti stringevo forte per attaccarti a me. Ti sentivo incespicare nell’ampiezza della mia gonna di lino, tra i miei piedi durante il tragitto. “Ti tratterò bene vedrai!” Ti ho detto. Tu non parlavi. Procedevi stretto nella mia mano. Ti ho portato in un parco, mi sono sdraiata sull’erba e ti ho steso al mio fianco. Fragile. Ho iniziato ad accarezzarti con dolcezza. Ho incominciato a toccarti per tutta la tua lunghezza, non molta. Ho preso a spogliarti. A scoprire le tue piccole forme. Strato dopo strato ti lasciavo nudo e inerme a mostrarmi la tua bellezza innocente. “Sei bellissimo!” “Meraviglioso!” Ho iniziato ad annusarti senza controllo. In silenzio. Ero folle. Me ne rendevo conto. Ma continuavo. “Il tuo odore mi fa davvero impazzire!” Ti muovevi appena sotto di me. Ti schiacciavo. “Dolce.” Ti sussurravo. “Sei mio adesso. Tutto mio.” “Sei il mio tesoro” bisbigliavo al buio. Ti sentivo appena. Ti ho liberato tornando a sdraiarmi su un fianco. “Vieni qui” ti ho preso e portato sopra di me. Ti stringevo. Forte. Come a volerti imprimere sul corpo. Ho preso fra le mani la tua piccola testa e ho iniziato a spingerti verso il basso. Volevo sentirti. Sentirti dentro.

Ho tirato la gonna in alto sopra le ginocchia. Ho piegato le gambe. Tu, così indifeso, hai iniziato a scivolare sotto, ad aprirmi. “Sì, ti prego!” “Sì!” Non so se sia passato qualcuno. Una donna in preda all’orgasmo che gridava alla notte la sua voglia di vita e di perversione. Avevo appena visto le stelle precipitarmi addosso come in un pianto infinito, che subito ti ho girato verso di me. La tua piccola punta fra le mie labbra. La tua testa fra le mie gambe. “Mi piaci!” “Ti adoro.” “Fatti sentire ancora ti prego!” “Ti voglio!” “Ti voglio ancora tantissimo!” Ti parlavo tenendoti in bocca. “Fammi venire di nuovo!” Non rispondevi. Non potevi dire niente, non potevi ribellarti. Non eri capace.

Mentre ti guidavo ad aprirmi con metodo, succhiavo quella punta piccola e tesa. Ma più insistevo, più sentivo che s’afflosciava. Eri assente a me e a te stesso. Tu! Io no! Il velluto della tua pelle fra le mie cosce mi montava di una smania senza vergogna. Ti spingevo insistente più a fondo. Ti volevo sconsiderata più dentro. Ma tu riuscivi ad aprirmi appena. Mi facevi sentire così maledettamente frustrata che ho sentito la rabbia salirmi insieme alla voglia. Urlavo. Era l’inquietudine della mia solitudine. Mi è sembrato che il mondo si dissolvesse. Tenevo gli occhi chiusi con dentro me stessa. Cercavo te, cercavo altri volti nella mia mente. Era come se tutti fossero lì. Sopra di me. A riempirmi. Sono venuta stringendoti ai denti. Sudata. Appagata. Poi ti ho attirato verso di me. Ti ho tenuto stretto. Immobile. In un abbraccio che simulava l’amore. Eri esausto. Sfatto. “Sei stato grande” ti ho detto. Sorridendoti. Felice. Ho creduto che facessi altrettanto. Lisianthus. Mio piccolo fiore reciso. Senza foglie. Senza germogli. Spogliato delle sue vesti. Invecchiato una notte di giugno.

Mia primavera comprata a un fioraio per qualcosa più del dovuto.

Sono scoppiata in una risata liberatoria.

“Grazie Lisianthus”.



(A me stessa)