25 novembre 2006

Va tutto bene


di Kiki Klement



Va tutto bene, va tutto assolutamente bene, non potrebbe andare meglio: appunto, non potrebbe andare in un altro modo, almeno Voltaire, candidamente, direbbe così.

Un risveglio felice, rassicurata dall’ardore che continuano a elargire le pareti di casa, dall’effusione rinnovata con un’intimità che è solo mia.

Avevo perso il controllo, troppo sconcerto, troppo cambiamento. Ma ora la mia mente sento che torna a dilatarsi ancora, sfrega timidamente i ricordi di quel che è stato e tira avanti, tornando a casa, cullata dall’abbraccio conosciuto di ogni centimetro che il mio corpo riconosce suo. Anche al buio, bendata, potrei camminare tra le mura di questo appartamento. Eh! sì, quanto mi è mancato.

In un modo spaventoso.

Più di quanto non riesca a dire.

Sono euforica al solo pensiero di assopirmi sul velluto tassellato dei divani, sulla spuma gonfia e soffice dei miei cuscini.

Come ne ho potuto fare a meno? Man mano che riprendo possesso delle mie cose, mi si velano gli occhi, e sento che riprendo in pugno la mia vita. In fondo, l’ho sempre pensato, “sapersi” nel momento in cui si vive, permette di godersi la propria libertà così come la si sente. Soggettivamente, accorderebbe Hegel: “nell’essenza che esaurisce la natura di ciò che si è”.

Nei giorni che verranno, lascerò all’attesa il tempo di asciugare le mie lacrime future, coerente con il proposito di stare ogni notte tra lenzuola che mi appartengano, senza nessuna fretta di volere andare, comprese quelle notti in cui il vuoto del corpo che non mi dorme a fianco mi ridurrà a una veglia. Sbircerò oltre le tende rigide e nere e oltre il bianco-avorio del lavabo, interponendo sempre e solo un corpo, il Tuo, Michael, dietro il quale rifugiarmi o ritrovarmi. Abdicherò all’opportunità di ostentare la mia natura scevra a schiere di osservatori casuali. Vacillerò, in modo impercettibile, comunque, inevitabilmente, come uno strumento dal suono insolito, basso e disarmonico. Seguiranno pause, e indubbiamente, frastuoni incapaci di acquietarsi, in certi momenti.

Insomma, minuto per minuto, sarò semplicemente me stessa. Bella, anche quando imboccata una via, il mio scheletro scricchiolerà sotto l’intonaco della pelle, per un improvviso sfinimento, o come criticherebbe Kant, lucidamente: “bella, perché riconosciuta necessaria a soddisfare”. Ed è così ora, mentre scrivo, mentre fili sottili d’acqua mi scendono indosso come collane, sulle spalle e sulle braccia, evaporando del calore del Tuo fuoco nel pensarti. È così, e così sarà domani.

Un altro giorno sottovoce, di aspettazione indefinita, trascinata indietro tra i ricordi e in un balzo catapultata avanti, incarnandoti nella mia mente. Il pensiero sai mulina, è un pensiero ma sto pensando di raggiungerti… basterebbe un cenno, il Tuo consenso, senza il quale non oso muovermi, e impavida e schietta cortigiana riuscirei a stento a trattenermi, mi porterei in dono, da scartare, di carne morbida e fragrante. D’impulso. Perché no?

Avessi almeno l’evidenza che laggiù è arrivata finalmente una folata d’aria calda, l’avessi scioglierei il dubbio sul significato che potremmo avere. Di fronte a quegli occhi obliqui. Eppure lì, paradossalmente, Wittgenstein insegna: “sulla certezza assurda di ogni preconcetto”.

Lì dovrebbero convincersene.




(A M.)