21 luglio 2005

RECLUSA




Al di là del muro, della parete bianca a buccia d’arancia, al di là d’uno strato di calcestruzzo e vernice, nonostante tutto, lei sente. Lei è costretta a sentire, e ascolta in silenzio.

La stanza che la tiene reclusa è una scatola chiusa, le respira attorno, la circonda, la chiude soffocante in un abbraccio per tenerla avvinghiata a quella superficie immacolata e rugosa, distesa metodica a spatola e rullo.

La stanza odora di pianto rappreso, di umida muffa, di lenzuola stantie di mesi vissuti nell’ombra dietro tapparelle serrate a nascondere il calore del giorno, a far sfiorire in segreto la vita, la sua, separata dal resto mondo, chiusa dentro un blocco di laterizi e cemento, senza nessuno, - nessuno! -, che lei incontri da riconoscerne il volto.

Ma lei sente, e non può farne a meno.

Non può sfuggire. Non può rintanarsi nemmeno sotto il cuscino, perché il rumore comunque sovrasta ogni sibilo - semmai uno vi fosse! - del vento, cancella ogni traccia di lamento o di riso, ogni passo che s’avvicina o s’allontana al di là della porta sbarrata di quella stanza cubica e calda. Quella è una stanza che la contiene ossessiva, che come una cavia la isola, fra quattro sbarre di pietra impalcate al di là d’una tintura di latte che da giorni la stomaca e alla mente l’opprime.

Lei non ne può più di quel bianco candore che la ferisce costante negli occhi, non ne può più di quel suono rugginoso che struscia, e poi metallico tuona, contro la parete opposta, al di là di quel tramezzo che pare fittizio, al di là della sua solitudine pallida fra quelle mura spoglie, dove anche gli armadi sono stati svuotati, i libri spostati, in un’altra stanza, mentre lì c’è solo il suo letto e qualche mobile sparso. Non ne può più di quello sfregare estraniante che l’avvolge e l’accompagna dal momento in cui lei s’addormenta a quello in cui si risveglia.

Sembra che grattino il muro, che lo sfreghino a consumare i mattoni fino a sbriciolare la materia in finissima polvere. Sembra che di là, oltre il visibile buio lunare, che dall’altra parte, insistenti e assetate, febbrili zanzare stiano avanzando, strette in plotoni, per l’esecuzione, per rompere il nido, il suo, che la protegge ma contemporaneamente la uccide.

Lei è sola, da non sa più quanto tempo.

E’ stipata tra la paura e lo sgomento di un baratro che come in un incubo le si è aperto improvviso tra i suoi ludici passi, quelli di quando ancora uno è lucido e sa dove vuole arrivare, quando ancora uno pensa all’amore, e ancora teme il colore dei capelli dell’altra, ancora si chiude dentro se stessa se per caso il suo lui si arrabbia o si stanca. Ma il vuoto che lacera il fondo poi lo scopre, ed è sul serio ben altro, e lei non l’avverte neanche quando le si spalanca inatteso in un risucchio tra un attimo e l’altro, perché il burrone sta lì, è pericolosamente in agguato, è in un’ora qualunque d’un istante qualsiasi, è lì che l’abisso l’intrappola, la strattona, l’annulla tra gli infiniti pensieri che le ronzano in testa e non le danno mai pace. Ed ora davvero non gliela danno: un’ombra di quiete.

Perché lei ora sta là, in punta di piedi, sul pizzo d’una fulminea voragine, in bilico tra la vita e la morte.

E’ chiusa dentro una stanza e aspetta, aspetta ora inerme nella stanchezza, che passino l’ore, che il tempo le allunghi almeno i suoi sogni come le crepe sul muro, le sue uniche amiche, le sole compagne che le alleviano il peso di quella muratura algida e sterile.

Ogni fessura lei la insegue, la incide come una vena nel marmo, felice che intagli di nero quel colore niveo di ospedale, la prosegue come le mostrasse una via seppur difficile e ripida, la pretende col desiderio di non vederla svanire nel bel mezzo del muro, nel vuoto istantaneo del bianco che la conduce al delirio, lei ogni apertura la allarga col cuore, la prega, la impreca di continuare decisa la sua discesa dal cielo alla terra, così che lei si senta di nuovo nel mondo, si ritrovi tra gli altri, ancora presente.

Ogni rottura di quel cieco biancore per lei è come un’augurabile uscita, è una ripresa, una possibilità per guarire, perché quel metallo che stride non è che il suo sangue a gemere sulle sue ossa, e quella stanza assassina che la occulta alla luce non è che la sua pelle ormai arroccatasi in gabbia.

La sua pelle che la tiene reclusa, il pozzo della sua malattia.



Note:

Queste sono le cosiddette “parole ingombre” che immaginavo la mia Silvia tenesse in testa mentre la guardavo negli occhi.



PAROLE INGOMBRE


Stavi lunga distesa tra le pieghe e le ombre

delle tue notti insonni, di päure tue insorte

rigirando preghiere tra speranze distorte,

nei silenzi subiti dietro parole ingombre;



lì, ove certe crepe le pareti ora sgombre

portavano dentro per vie strane e contorte

una fuga di scelte e di vita alle porte,

tu trovavi un dirupo fra le mezze penombre.



Più negli occhi tenevi che nel corpo il calore

quando andata la forza dall’amore al rancore,

non il dire era il tuo, né il fare lo era.



Che taceva a te un dito sulla bocca il domani,

il mio, a dinïego dei sogni tüoi vani

in quest’anima mundi solo fumo su cera.



Ad oggi, le pareti della sua casa sono state ridipinte di fresco, e sono d’un caldo color zafferano.

Il bianco è stato debellato.



(A Silvia)