VIA AURELIA
Com’è che cammino a passi allentati su questo marciapiede imbrattato da carta ingiallita, da lattine ritorte e cicche d’un fumo segnato a rossetto? Non è forse troppo romantica e rossa questa serata per ammettere di farla specchiare a ridosso d’una pelle di latex che nera già intorbida la notte che arriva? Davanti c’è una colonna d’auto in colore per qualsivoglia misura o pretesa, qualcuna appena rallenta, qualche altra finge e si ferma. E c’è sempre un uomo, più o meno convinto, che mi fissa e commenta: - Bella figa quanto per tutto? - e come se il tempo s’arrestasse in quell’attimo, riesce a farmi sentire come se non avessi altra ragione d’esistere a quella, come se puttana lo fossi da sempre.
Com’è che cammino davvero lungo questa strada rovinosa di traffico, a quest’ora che le persone perbene stanno stordite in un piatto di televisione e famiglia? Sotto questo caldo d’estate che scioglie, dentro questa fascia di fibra fittizia che impregna la pelle come farebbe un uomo che non sente l’odore del sesso dal giorno che è nato, com’è che questa bocca non la credo più mia, che queste labbra fin troppo truccate nient’altro sembrano chiedere che farsi sbavare fin sotto sul collo? Proiettata in questo scenario scandito in dettaglio dai secondi che passano, che hanno spessore come un sogno al risveglio, cammino d’un tacco e poi l’altro, d’un ticchettio ritmato d’asfalto che fa eco alla marcia in crescendo del battito. Prima o poi, penso, m’accosterà il tipo giusto che vuoi, che accetti la cifra stabilita per me, - 1.000,00 € tutta la notte - , che se non fosse così presuntuosa su questo mercato chissà già adesso dove sarei, e non è che io non li valga davvero e tu lo sai che li valgo, che c’è chi già solo a guardarmi s’è dovuto prestare improvvisando una scusa a ripulirsi da qualche macchia spuntata a difetto, che già alla prima infantile coscienza d’esser bucata qua in mezzo sentivo la forza d’un fiume smarginarmi da dentro, che già se la voglia s’assume il comando di dire non c’è rifiuto che io possa ostentare.
Prima o poi mi stringerà alla gola uno sguardo e resterò muta, coi pensieri dispersi che s’aggrovigliano senza trovare una forma. Percorrerà sfacciato o perplesso ogni piega di questa pelle perfetta, fino a fermarsi nella fessura ristretta di queste tette compatte di donna, a immaginare che pressione può esserci a premere un sesso proprio nel mezzo.
Eppure da un’ora cammino aspettando solo che qualcuno m’abbordi, ancheggiando orgogliosa come se questa sudicia strada m’apparisse come un rosso tappeto che porta a un altare, come un percorso obbligato che segue una scelta, come questa appunto, di seguirti là dove avresti deciso per me, per essere sempre all’altezza del ruolo che ignoto, ogni volta, non m’ha mai fatto pentire d’averti lasciato osare ad oltranza. Così cammino e non c’è altro suono che non sia quello d’un clacson, non c’è altro colore che non sia questo grigio d’asfalto che adesso vorrei riempisse i miei sensi, perché quest’attesa che opprime s’annienta soltanto con l’appartenerti del tutto.
Intanto a poche centinaia di metri, laggiù, al di là della folla, hai già intrecciato le braccia e so già che è un’inflessibile sfida a questo sfilare di gambe, che è un’irritabile sdegno per quest’altalena di volti che pendola qua solo guardare. T’adíra questo mio andirivieni di carne che s’aggiudica solo rifiuti, che s’arroga il diritto di sapersi migliore di questo sensual-serraglio d’intorno che s’offre, che incessante s’illude che sarà l’ultima volta, che sarà l’ultima alba affacciata dentro una patta, dentro un tramonto piovoso che acceca la vista.
Eccola ora, s’accosta un’auto grande argentata, appena un accenno ed è chiaro che altro non vuole che me, che altro non vuole che m’avvicini e mi lasci ammirare. E’ tutto talmente troppo veloce che già ho risposto alla domanda di rito - Quanto per tutto? 1.000,00 € tutta la notte! -, che già ho riposto le gambe alla destra d’un cambio che ha già infilata una terza, che ha già una mano rossa e grassoccia che sopra gli preme, gli freme di spostarsi d’indice e medio su questa pelle sudata d’attesa, su quest’inguine nudo imbevuto di sesso.
Ma io com’è che sono salita? Com’è che sono stata sicura che m’avresti impedito di divaricare le cosce per varcare la soglia, che m’avresti proibito di prendere posto su questo sedile di stoffa che sfrega la figa come se fottesse a sua volta?
Così la sento la sua mano che sale, che scende più sotto dove la coscienza si perde, la sento che segna il percorso che già penso sarà sulla sua lingua, la sento mentre parole che non riesco a capire mi montano in mente, mentre quest’aria viziata di voglia mi vacua la voce come un veleno fin troppo diffuso nel buco d’un dito di spazio. Ed è dentro quest’abitacolo ambiguo che s’arroventa di caldo, che s’affolla d’odore di sesso che punto i tacchi per terra su un tappetino appestato di grasso, che aggrappo di peso le braccia alla cintura di sicurezza fattasi corda che stringe, che costringe nel mezzo queste tette sfollate dal bordo, da un abito troppo succinto, che come fosse una gabbia mi serra la vita, mi spreme la voglia che così soffoco assorta dentro un sussulto profondo nel buio chiuso degl’occhi.
Ed ora cosa gli dico? Ora come gli spiego che non sono una puttana sul serio, che non passerò la notte con lui in chissà quale vicolo stretto accosciata sul cofano freddo di un’auto, addossata ad un ignobile muro in chissà quale buco di bagno o accovacciata su un prato con la faccia schiacciata sulla terra e sul muschio, come gli spiego che non passerò la notte con lui neanche volesse portarmi in una stanza di lusso, come glielo spiego ora che m’ha già fatto godere prima dirmi il suo nome, ora che gli ho bagnato il sedile e non è solo sudore, ora che qualcuno avrà sicuramente notato al di fuori di questo finestrino mezzo abbassato che dentro quest’auto davvero non c’è una Signora?
Allora lo guardo, ha occhi buoni ma tratti e mosse decise come chi sa dove vuole arrivare, come chi sa che non c’è alcun luogo dove possa scappare. L’auto rallenta dentro un parcheggio illuminato dai neon d’un alberghetto appena fuori città, appena il tempo di farmi dire il suo nome - Giovanni, Giò - che m’invita a scendere, a salire le scale che portano dentro nell’atrio. Ecco ho deciso glielo dico adesso, così su due piedi, così prima d’entrare all’interno, prima che sia troppo tardi, prima che la sua lingua sia dentro l’orecchio a sussurrarmi paradisi di sensi, a suggerirmi che stavolta sarà davvero la prima che faccio del sesso.
Giò, comincio, ed è come un cambio di scena in un sogno, come la forma d’un desiderio che prende sostanza, proprio così in cima alla scala ti vedo mentre palesemente ci osservi, pianificatamente ci aspetti con un sorriso che è come un abbraccio che attendo da tempo, come un fatto che non ammette alcun dubbio, voi eravate d’accordo.
(A Michael e a Giò)