24 marzo 2006

Time after Time





È il mio più grande rimpianto.

Dice lui. E quando le parole montano a schiuma e fermano il respiro, per un attimo almeno, vuol dire che arrivano a segno. E non è per la voce, prosaica presenza, né per la consapevolezza o per la resa mesta di essere giunti al termine. E’ che basta il tramonto di un autunno troppe volte ripetuto, per accorgersene, quando il momento si fa pausa in gola, quando il gioco del verbo si affila e protesta di rabbia, si rivolge incredulo come imprecando il sole, quando brevemente è lui che si piega, pregando ancora di poter sorgere pieno. È che basta carpire dentro un tono di voce, sempre la stessa nota che torna, che svela l’anima, per scoprire un’intimità perduta nell’altro. Per vederne allo specchio proprio il piglio del volto. Lo sguardo rotto che invecchia tra nostalgie di aridi nomi, che è un raccontar di donne, di un tempo, mentre il presente invece grida d’assenza, con insostenibili istanze e mai riuscite sentenze. È che basta questo, per riavere ancora l’ombra di una forma, calda da seguire, pur mala-mente, tra le vene della mente e tra le mani ormai inferme.

È il mio più grande rimpianto.

La voce si ripete sottointesa tra le frasi. E Vali sente. Vali che è una bimba e si diverte, sconsideratamente. Lei per quella Mente talvolta ancora cerca e riconduce, e per il piacere che la porta, che inevitabilmente la frastorna, lei si insidia di radici dove più la terra stende arida ed asciutta. Vali è un fiore candido d’inverno, proprio lì, dove la fiamma di una vita brucia lenta-lenta la sua fine. Un’ultim’ora che lei sa, ma ancora non conosce. A Vali piace, sentire del potere, l’amaro per cui l’altro si disperde. Lei è come la rosa in fioritura di fragranza davanti ad un arbusto rimasto senza l’acqua. Lei è il profumo che si stipa in una serra, troppo, per chi ristagna e già residua vanamente al punto di riprendersi. Lei sa di essere meschina, a volte, di indugiare dove più la mente si rammenta ma la pelle non ascolta. Vali sente la secchezza delle mani di quel vecchio, ne riconosce l’arsura che lo brucia ed il boccheggio, proprio lì dove la carne si divora e si fa fessa, proprio dove scendono le rughe di corteccia e solcano a fondo la bellezza. A Vali piace quell’incontinenza umida, la commozione di quegli occhi incatenati, così sinceri. Per quello torna e ritorna da lui, per quello gli si attacca e lo risucchia. Quella è l’unica sorgente che è rimasta. Quella che lui canta.

È il mio più grande rimpianto.

Vali si esalta del tormento di cui è causa. Lei subdola lo provoca. Vali si compiace, è come l’onda dell’oceano in tempesta, come la pioggia scatenata sul deserto, lei è la rugiada effervescente che scende nel profondo della terra ogni mattino. Lei sa di essere il sale di lui, sa di essergli effimera come il miraggio, a prosciugargli irreparabilmente la mente, frustrandolo invano per non potersi bagnare, per non poter più sentire il calore primitivo dell’alba. Lei sa, che lui la vuole e la soffre, in riservato silenzio. Lei va oltre il consentito ritegno, sboccia regina nel giardino del sogno del vecchio. Fa di lui l’eunuco di un tempo.

Vali è così, a volte, cinica e scaltra, e se non vuole davvero ferirlo, lei però ama quel gioco di taglio. Vali scatta, e scatta a sedurre, a mostrare nudo il suo corpo. Vali a volte è rivalsa, si spoglia, mostra la carne e sfoglia la rosa, muove le dune alla danza del vento, lei si apre come un’oasi in fiore illudendo un sogno di senso. Ma Vali non si concede, non è mai ombra a placare il deserto, dà solo calore incessante e ossessivo, e lui lo rivive da dentro, ancora una volta, come a suo tempo. Lui non può che guardare da fermo, come paralisi bianca d’inverno. Lui è brutalmente impedito tra la volontà che lo forza e l’inutile lotta della propria infame impotenza. Lui non può, se non dirlo.

È il mio più grande rimpianto.

Lui sapesse almeno soltanto, che lei si lascerebbe soffrire, per quella colpa umiliante ed ostile che li tiene lontani.

Loro sono come perfette penisole, separate dal tempo, dalla stessa ed unica terra. La vita.


(A L.)




“Ecco, questo testo mi nasce da un sogno, stanotte, dedicato a chi era lì, immaginato con me.

Ma, al di là dell’apparenza, è stata amarissima la sensazione del risveglio, un riflusso d’ansia. Mi sono pensata e ripensata, ho cercato di far rientrare ognuna delle immagini latenti dentro un possibile gioco di switching…, praticamente ho tentato una magra consolazione, che non è arrivata.

Mi rimaneva il dubbio sul come e sul perché.

Inconsciamente, non ho capito come mi sia potuta travestire di un ruolo che non mi appartiene…, o peggio, molto peggio, come abbia potuto anche solo sfiorare l’idea di topping from the bottom.

Adesso, sento tutta l’urgenza di un castigo meritato, mi sento come la bambina che disubbidisce per attirare l'attenzione, la bambina pestifera che deve essere rimessa in riga nel giusto modo e per tempo.

Ma, hai detto bene, Padrone, il non saperti qui con me adesso, per la distanza necessaria che di nuovo ci separa, è proprio il dolore che devo sentire, è proprio la frustrazione che mi ci vuole, ancora maggiore, che se tu, Padrone, mi colpissi in pieno e ripetutamente, mi umiliassi o mi gridassi contro, facendomi sentire come una povera scema, ridendomi in faccia.

Lo so, talvolta è necessario.

Perché ho capito poi, questo sogno è stato il riflesso di un impulso di ribellione, per colmare quell’imminente separazione che m’inquieta e per imparare di nuovo a sopportarmi in essa nel frattempo.

Mi sta bene quindi, essere punita così, e scriverlo qui, in questo modo, dove non mi è facile come sai…”



(A Michael)