03 novembre 2008

Marco


(Gennaio 2007)


L’amore, pensai, una porta per respirare.

Un odore mortale. Dall’istante in cui presi quello che il caso mi offriva, il cuore batteva forte. Ma era stato il caso, davvero? Non avevo forse scelto di entrare finalmente nella sua auto e raccontargli tutto.

Ricordo ancora la durezza al pensiero di come mi guardava, ero di nuovo ricettiva. Il profumo che sentivo non poteva essere una coincidenza, da giorni cercavo quell’essenza; quindi, aspettai senza dire nulla.

Che impressione doveva avere il mio corpo in quelle foto sparse sul cruscotto? La testa da pazza, la schiena come una pagina stracciata. Segni di valore diverso decoravano, onoravano o disonoravano, provocanti, impressionanti in evidenza. Le gambe oscenamente spalancate. I polsi legati. Lontana, oppure proprio lì, sbattuta con un sorriso in primo piano.

Le foto disseminate ovunque, logicamente, tra le cose innominabili. Sui tappetini sporchi. Sotto i piedi.

Marco guardava il mio corpo squassarsi mentre un uomo si infilava in me completamente e un altro mi riempiva la bocca. Era ancora vivida la sensazione provata, di smarrimento e di oblio. Di perdita di aderenza e per qualche istante, di morte.

Era pazzesco vedermi in quel momento. Impalata. Aperta. Era maledettamente eccitante.

Sentivo di essere nuovamente bagnata, era strano, provare quelle emozioni in modo così assente.

Avrei voluto urlare, ma Marco – il viso severo – esprimeva imbarazzo. Un’avida repulsione.

Capivo che una carica esplosiva aveva iniziato a vagare e poteva scoppiare da un momento all’altro.

Ebbi un sussulto quando l’auto partì di colpo; come se uno specchio si fosse frantumato, Marco guidò con altrettanto distaccamento. Così facendo una nota sinergia mi venne incontro, un’impotenza fisica che accettai con entusiasmo.

Ufficiale dei carabinieri, Marco, era un amico anche se non si era mai creato un rapporto vero. Più che altro approfittavo di lui spesso.

Aveva un debole per me e quando avevo bisogno dava sempre una mano.

Quando arrivammo al suo appartamento, un attico in un quartiere tranquillo, ancora esitava: un ricordo esatto più che un’impressione, un uomo imprigionato.

Il palazzo era moderno, a due passi dalle vecchie mura romane. Il sole aveva cominciato a tramontare e fra gli alberi il giardino coltivato all’inglese era impeccabile.

Cercai nell’aria qualcosa di diverso, una sensazione tornava e rifluiva. C’era un profumo acerbo, di oleandri e lauro, un odore di terra inzuppata che esigeva rispetto. Un odore da togliere il fiato, un profumo che già conoscevo. Di tristezza e di sesso.

Un odore irreale, di legno pregiato, ma delicato al tempo stesso. Quando entrai nell’edificio sussultai di nuovo, una strana sofferenza mi riempì il ventre e al contempo mi forzò a prendere una decisione. Il tempo necessario per sentirmi spezzata, viva, gelida. Il corpo spento.

Le mura di granito, l’ascensore verde acido, il corridoio adornato di piante inopportune, tutto era stranamente familiare. Lo avevo già conosciuto ma non ricordavo quando. Da tempo ero arrivata e non me ne ero mai andata.

D’altronde, nessuno può lasciare se stesso.

Marco spalancò l’ingresso e il sole inondò l’entrata, dalle vetrate la luce serpeggiò attraverso la sala. In un attimo mi precipitai all’interno, avevo improvvisamente fretta.

Guardai Marco quindi, era sconvolto, lo sguardo vitreo, fisso in un punto imprecisato.

Gli occhi hanno cercato me per un momento e ho avuto la certezza che volessimo la stessa cosa.

L’attesa lo faceva impazzire.

Quando bevemmo dalla bocca il gusto della pioggia, l’odore argilloso, umido e organico era quello di quel gennaio complicato. Avrei voluto sussurrare che mi prendesse subito, lì, faccia al muro. Dilaniando il silenzio contro le pareti lucide e grigie, quell’odore raschiato di vernice non l’avrei poi dimenticato.

Scoperta. Strappata a me stessa. Sul cassettone all’ingresso. Di nuovo riempita. Per un istante completata. Avrei voluto rimproverarlo o forse pregarlo. Scopami.

Per orgoglio forse, però, non dissi nulla.

Non reagii quando lo sentii dietro le spalle, scivolare leggero, le mani come uccelli sulle natiche. Il fiato sul collo. Il profumo, quel suo profumo, sparato in gola mi soffocava.

Per un po’ io e Marco abbiamo fatto l’amore, quasi tutte le sere, in quell’appartamento: un gettarsi tra le braccia che era una forma di suicidio.

Ho goduto nella sua bocca tutte le volte che lui ha goduto nella mia. I nostri giochetti sono durati settimane. Hanno assunto caratteristiche bizzarre, le manette di servizio, lo scatto del gancio, gli anelli mordevano la carne fino a scoppiare; sempre più di quanto fosse stato possibile la volta precedente, Marco amava il suono del metallo, lo usava. Non chiedevo.

L’orgasmo si insidiava in me come una conchiglia su uno scoglio.

L’unica volta che veramente mi colpì fu quando avvicinò l’M16 alla mia fessura, che peso aveva quel metallo. Mi guardò negli occhi e lessi quella voglia di continuare a godere che confinava con la voglia di uccidere. Mi scopò con quel simulacro in tutti i modi, scavando aperture profonde in cui affondai rapidamente.

I muscoli degli sfinteri si modellavano perfettamente al suo cazzo, come se tutte le volte che mi sodomizzava, fra il ventre e il metallo caldo, lo sperma che scagliava potesse cancellare la traccia di chi ero.

Ma non lo amavo. Non lo avrei mai amato e non lo volevo, tuttavia non potevo liberarmene.

Fu un senso di urgenza a far precipitare gli eventi, a riprendere il controllo del mio corpo.

Vivendo da mesi ai margini della coscienza, giorni artificiali, una sorta di sospensione, presente ma remota, chiusa nel dolore, nel disinganno, presi a rispondere appena ai baci del mio amante.

Lo spazio da riempire divenne sempre più grande e Marco capì che la corrente stava cambiando il suo corso; per un po’ rimase imperturbabile, continuando ad espugnare. Tentò di risalire al cuore.

Ingoiai però il suo fallimento.

Man mano che il calore montava in superficie sotto le carezze, il progredire dei ricordi sulla pelle saltava fuori ed era una prova schiacciante: lo sfregio della mia convalescenza arrivato al termine. Solo la realtà conferì realtà al dolore, ci lasciammo presto.

Un odore aveva perdurato ad impregnare la pelle, attirando a sé, e in un sol colpo aveva camuffato il desiderio. Inbrogliandolo. Aveva fatto rivivere un assente, il ricordo rendeva possibile trovare Michael.

Amami e fammi soffrire, avevo chiesto, come se Marco fosse una vecchia cicatrice del Padrone. L’ultima ferita, un gemere silenzioso. Ero colma di tenerezza inespressa.

Accadde in modo trasparente, in Suo ricordo, Marco fu una cinghia di trasmissione, la sofferenza e poi il sollievo.

L’odore di una confessione difficile da raccontare mentre si sta cercando di riordinare un puzzle.

Quando tutto pare identico ma niente è uguale.

2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Sono perplesso. Ha un certo non so che rivedersi tra le parole dopo tanto tempo. Un anno? Due? Il nulla e poi BAAM!! Volevo fare lo stronzo e non rispondere invece, la curiosità continua a fregarmi pare. O sarà coraggio? Decidi tu bella, quanto è crudele il silenzio non devono insegnartelo.

12:47 PM  
Blogger SchiavaD'Amore said...

di nuovo grazie per non esserti tirato indietro, è stato importante quanto ci siamo detti, guardare al passato è a volte necessario.
sono anche più dura di prima, hai ragione, ma sei una bella persona e conta molto per me la possibilità di chiarirci.
sai che sono in città, veramente, ti aspetto.
un dolce abbraccio

11:36 AM  

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