14 agosto 2005

DELIRIO


L'immagine è di Max Pritt

Giuro che ho spazzolato i capelli. Ho lisciato bene ogni ciocca da districare alla radice i pensieri. Perciò ditemelo che non è colpa mia, se loro s’ostinano a stare gli uni sugli altri, come un delirio. La mia testa ronza come un nido di vespe.

E’ vero, ho dormito poco stanotte: ho sentito il soffitto franare; la volta sui meandri della memoria ha iniziato a vorticare ossessiva. Cedeva, saettava. Si sgretolava in lunghe crepe, sottili e volubili.

Non so quanti vermi mi siano caduti addosso.

Quegli esseri smaniosi e striscianti, pensieri così tormentosi che hanno scavato buche profonde, senza ritorno.

La notte – diceva qualcuno – è il momento in cui le dormienti tornano sveglie, le paure e i sensi di colpa serpeggiano fuori, in silenzio abbandonano i loculi – le anguste tane – in cui inconsciamente se ne stanno rinchiuse, e lì s’avvinghiano alle itteriche angosce, finché penetrano gli incubi aspettando il momento in cui si è più vulnerabili e fragili; la loro è una morte apparente, perché è quando le ombre si allungano che si destano e rimangono vigili a perscrutare il mondo – il mio, inerme –, finché dall’alto s’avventano, intorno vi girano, e gli saltano addosso.

Addosso.

– Oddio come strisciano. Non riesco a scacciarle, le larve infelici della viltà si muovono troppo veloci, le mie mani mulinano al vento, gli passo attraverso –.

L’alba stamani mi è parsa da subito, come il bagliore d’una lampada alogena spenta da poco, vacua e sfuggente; le ore del mattino tardavano, e tardavano, e il buio ha finito con me il suo risucchio. Mi ha coperto con il velo stellato delle illusioni, e con esso ho iniziato a precipitare nel vuoto come una stella il 10 d’Agosto.

Più tardi, quando ormai si sarebbe detto che si fosse svegliato il giorno, l’alba non era ancora né calorosa né rossa, sembrava piuttosto l’espandersi lento d’un ematoma a contusione avvenuta. Un’ecchìmosi della speranza. I lividi d’un temporale, dopo che il cielo ha pianto anche la sua ultima lacrima.

E’ che sto dimenticando il colore dei sogni.

C’è stato un tempo che cantavo agli azzurri mattini, spalancando la finestra e guardando il cielo cantavo l’amore vestito di bianco, seguivo come un girasole d’estate il nero profumo della cioccolata d’inverno, correvo sul verde infinito dei prati respirando il lillà d’una rosa rubata al giardino di nonno, sognavo, e a quel tempo ancora disegnavo il rosso dei cuori scrivendo su una freccia: Ti amo.

Rosea volevo la vita – credo – quando ancora distinguevo il colore dei sogni.

Rosea.

Adesso continuo a spazzolare ogni giorno i capelli, districo attenta tutti gli amplessi della mia anima informe, spazzolo addirittura due volte, riflessa davanti allo specchio, mentre intanto il grigio del tempo incalza ed incombe, e non mi resta che fare una trama d’argento – una catena metallica e lunga – da poterla scendere al pozzo, giù in fondo, dentro me stessa.




(A me stessa)