11 agosto 2005

SS - M66


L'immagine è di Steven Speliotis



“Respira”, mi sussurra una voce. “Vedrai, ti sentirai subito meglio”. È una voce dolce, avvolgente come seta.

“Rilassati Valentina, stai tranquilla.”

“Rilassati”, ripete la voce con dolcezza, ed io mi lascio andare; assecondo le sue parole che suonano lontane, ma così confortanti, amiche.

La Sua voce è una carezza. “Tieni chiusi gli occhi”, dice. E’ morbido velluto.

Ho la sensazione di fluttuare. Insisto a tenere gli occhi aperti, ma stranamente tutto è fermo, inerte. Provo a pensare. Cerco di concentrarmi su dove sono, su cosa è successo; ma mi si accavallano i pensieri e sento la mia mente scivolare via, come una foglia morta a pelo d’acqua.

Mi sembra di avere appena ripreso conoscenza, dopo un lungo sonno, o forse, di avere appena varcato il confine dove non so più chi sono. Sono intontita, mi sento stanca, e quando tento di muovere una gamba, un braccio, mi accorgo di non riuscirci. Resto immobile. Inchiodata da qualche parte, come sospesa in aria. Non sento più il mio corpo. E’ come se indugiassi in uno stato di dormiveglia, e mi guardassi dal di fuori, con gli occhi aperti, come in trance. In un sogno lucido. In un’anestesia.

Chiudo gli occhi e poi li riapro, ma non ho nemmeno la certezza di esservi riuscita. C’è una luce intensa ma paradossalmente, anziché vedere meglio, non riesco a capire cosa ho intorno, non vedo se c’è qualcuno. La luce è persistente, e mi acceca. E qualcuno c’è, una voce mi parla.

Lentamente prendo coscienza di questo fatto: una voce mi parla.

“Rilassati”, mi dice. “Andrà tutto bene. Conosci la Special K? Ne ho sciolta un po’ nella tua acqua tonica”.

Mi sembra di sentire la mia testa, cerco di capire quello che dice, quello che penso. Non so più cos’è reale, mi scorrono davanti fiumi d’immagini fluide, macchie solari luminose ed iridescenti galleggiano nei miei occhi; ma non riesco a metterle a fuoco, non riesco a definirne la forma.

“Respira”, di nuovo mi sento dire. “L’effetto psichedelico durerà solo qualche minuto. Te ne ho data una dose ridottissima, per metterti fuori combattimento il tempo necessario”. Sento continuamente quella voce calda e setosa che, come un’onda sonora, mi guida nel mare d’un’aurora boreale fluttuante nella mia mente.

In un tempo che mi sembra infinito comincio a rendermi conto, sempre di più, di più, che qualcosa è molto strano. Ho la certezza che le reazioni ai miei pensieri siano rallentate, e costanti resistenze mi tengano bloccata. Solo adesso comprendo appieno il senso di quelle parole: “Conosci la Special K? Ne ho sciolta un po’ nella tua acqua tonica”. Riprovo ad alzarmi, ma di nuovo il mio corpo non risponde. Mi rendo conto di essere trattenuta, qualcosa mi tiene bloccata, m’impedisce di spostare le braccia e di muovere le gambe; mi tiene serrata la testa, la bocca; non riesco nemmeno a parlare; non posso gridare.

Sento freddo. Ed è un freddo che viene da dentro, e mi gela il sangue.

“Non agitarti”, la voce è controllata. “Sprecheresti inutilmente le tue energie”, la voce è sommessa, e dolcemente mi ammonisce. Io di nuovo mi sento fluttuare a mezz’aria; solo che, stavolta, l’impressione di oscillare è più chiara, è più sicura.

“Gli effetti della ketamina stanno già svanendo. Presto riacquisterai completamente le tue percezioni. Sei sull’altalena, bambina”. La voce elargisce risposte come se sentisse le mie domande mute.

“Sei sull’altalena, bambina”, queste parole mi risuonano nella testa come un’eco. Mi rendo conto, alla fine, di avere braccia e gambe legate a delle catene: le gambe, in alto, appoggiate a delle staffe, aperte e ripiegate su se stesse, contro l’addome; mentre le braccia, tenute in parallelo, sono imprigionate sopra la testa attraverso un paio di polsiere, trattenute, a loro volta, da un anello a delle altre catene. Sono imbracata ad uno sling. Le caviglie e i polpacci ben stretti nelle cinghie. Supina, la schiena nuda aderente al cuoio. E le gambe spalancate come su un lettino ginecologico. Sono completamente immobilizzata. Incapace di ribellarmi. Gemo, in preda allo sgomento, assolutamente inerme, e un’onda di panico mi travolge. Mi sento sopraffare dall’angoscia. Ancora stordita, m’investe una sensazione di claustrofobia, mi manca l’aria. Faccio fatica a respirare. Il battito cardiaco accelera e lo sento pulsare nelle orecchie, il respiro si fa più rapido e corto. Sono interamente in offerta. Totalmente vulnerabile.

Cerco di guardarmi intorno – la luce si è fatta più tenue, d’un color pastello tremolante, e in verità è quasi completamente buio – riconosco gli uncini, gli anelli minacciosi sul soffitto; ricordo di essere nella cella segreta del seminterrato, nel dungeon, a casa di Michael.

“Respira profondamente”, la Sua voce sussurra. “Non devi preoccuparti. Lo sai che puoi fidarti di me. Vedrai ti piacerà”. Lo guardo. Vorrei parlare ma non posso, la bocca è imbavagliata e la lingua è schiacciata da una palla di gomma verso il basso, accuratamente, per evitare che finisca di ingoiarla. Ho solo le narici libere per respirare e alcuni piccoli forellini che bucano il tappo che mi toglie l’aria.

Lui mi gira intorno e con una mano accarezza il mio viso da una parte all’altra. “Sei bellissima”, dice.

Di nuovo gemo, smarrita dalla sensazione. Mi ha drogato, mi domando perché. Perché? Non avrei forse ubbidito? Perché? Il Suo piacere sarebbe stato il mio. Il Suo piacere è sempre il mio! Perché? Mi ripeto gemendo ancora, con le parole che muoiono soffocate nel bavaglio serrato fra i denti.

“Sono stato troppo indulgente con te, ultimamente”, sostiene risoluto, usando un tono reprensivo. Lo interpreto come un rimprovero per i miei sentimenti, continuamente al freno, da Lui perentoriamente dissuasi.

Spalanco gli occhi. Lo guardo preoccupata.

“Molto tempo fa decisi a quali regole ti saresti dovuta attenere, e tu, giustamente accomodante, ti sei sempre ben vista dal violarne seriamente qualcuna. Sei stata brava.” Tace per un momento, poi dice: “ Ma non negli ultimi tempi”.

Scuoto la testa e mugolo, non capisco cosa voglia dire. Nego, non è vero.

Alzo lo sguardo su di lui e gli leggo negli occhi la determinazione.

Mi prende il mento con la mano inguantata e si piega su di me, a pochi millimetri dalla mia bocca spalancata, sfiorandomi la gola con le dita nude; e ripete, guardandomi con disprezzo: “Ma non negli ultimi tempi”.

Il suo tono è calmo, ma l’ansia velocemente mi monta dentro senza che nemmeno me ne renda conto. Perché? Quale regola non ho rispettato? Cosa non avrei dovuto fare o dire? Quale Sua aspettativa ho deluso? Quale? Dimeno la testa e gemo forte, ad ogni movimento l’altalena oscilla; le catene tuonano e si tendono, prima davanti e poi dietro insieme al mio corpo. Sento gli arti che mi tirano, il mio sesso scivolare sempre più avanti, le pieghe della mia carne aprirsi. Sono indifesa, in balìa della Sua rabbia mentre sale.

“T’ho detto che puoi lamentarti?” urla. “Te l’ho detto?” e mi schiaffeggia forte tenendomi per il collo; così forte che in quell’attimo ho il terrore d’ingoiare la palla e soffocare. Gli occhi mi si riempiono di lacrime, ma non è per il dolore bruciante alla guancia, è per la paura di averlo deluso; per il terrore che mi colpisce allo stomaco, di perderlo.

“Non voglio sentire un fiato!” sibila, avvicinandosi nuovamente al mio viso.

Trattengo il respiro e ingoio i singhiozzi. Chiudo gli occhi. Cerco di calmarmi, mi sforzo di allentare la tensione. Tento di razionalizzare. Vuole solo spaventarmi, mi dico. Non mi farà mai davvero del male. Lo penso, e ne sono convinta. Mi conosce, e sa perfettamente quali sono i miei limiti. La nostra relazione è basata sul consenso, sulla sicura fiducia reciproca.

Pianopiano comincio a tranquillizzarmi, e, concentrandomi prima sulle gambe e poi sulle braccia, rilasso i muscoli e sciolgo le tensioni che m’intorpidiscono.

Ma allora perché mi ha drogata? mi chiedo. Perché mi ha fatto ingerire del veleno? Bastardo! Non aveva il diritto di farmi questo. Che maledetto stronzo! Fottuto maledetto stronzo! L’ira delle mie parole m’acceca i pensieri di ribellione, m’avvampa il viso e mi corrompe lo sguardo, lo indurisce e con quell’odio lo rivolgo a Lui.

Inflessibile. Implacabile. Il Suo sguardo mi tiene testa.

È sinistro e irriconoscibile sotto la maschera.

Nel semibuio della cella è un luccichio inquietante che sembra affilare su una lama le prossime intenzioni.

Non posso resistergli a lungo. Non ne ho la forza, sono inerme legata a quell’imbracatura.

“Te lo sei voluto tu, questo. Se fossi stata adeguatamente compiacente, non sarei dovuto arrivare a misure così estreme. Lo sai, tu devi sottostare a quello che voglio Io, quando lo voglio Io. Ma questo principio fondamentale dai la netta impressione di averlo dimenticato.”

Lo fisso sbalordita, e ripercorro a ritroso quanto è accaduto negli ultimi tempi. Non trovo nulla, nulla che disattenda questa regola.

Ma è proprio questo il punto: io non me ne sono accorta.

“Ho ripensato a quello che hai detto, l’ultima volta a casa di Diego. Hai avuto l’ardire d’affermare che, mai e poi mai, ti saresti lasciata aprire completamente, che la dilatazione estrema non ti piace. Bene! Adesso staremo a vedere.”

Istintivamente agito di nuovo la testa piagnucolando la mia protesta - ricordo d’averlo detto, la consideravo una mia scelta -. L’altalena dondola e le catene tintinnano angosciosamente. E subito mi piomba addosso un’altro schiaffo, violento, a cui mi soffoco di grida; e senza che lo possa impedire ricomincio a piangere.

Lui è fuori di sé, vedo la furia riversarglisi negli occhi. Mi stringe il collo e un poco mi alza dalla lettiga inarcandomi la schiena. “Devi restare immobile, o te ne pentirai” mi intima a voce scavata, come fosse senz’anima.

Mi sento appiccicosa, la pelle dello sling è diventata scivolosa. Sono madida di sudore: ho paura – anche se resto ferma – mi sento tremare convulsamente. Mi metto a fissare un punto imprecisato sul soffitto e cerco la mia pace appesa da qualche parte.

Lui si allontana. Con ansia crescente osservo mentre sfila i guanti, prende un tubetto da un ripiano e lo spreme e, fino ad oltre i polsi, comincia ad ungersi ripetutamente le dita, le mani, con meticolosa cura. Tiene con sé l’unguento – un lubrificante ad acqua – , e mi torna vicino.

Lo guardo atterrita, gocce di sudore mi scivolano giù lungo la fronte. Immobile. Senza emettere alcun suono. Lacrime calde scendono fino alle tempie, e si mescolano col sudore alla radice dei capelli.

“Preparati”, dice secco. Nei miei occhi una muta supplica.

“Vedrai ti piacerà. Questa non è una punizione. Sei pronta per questo. Io lo so, che sei pronta. Solo che tu non te ne rendi ancora conto.”

Le sue parole pacate mi arrivano convincenti ma, appena mi sfiora le labbra aperte del sesso, il mio corpo geme d’angoscia. Una nuova ondata di panico mi sovrasta: sono già sanguinante – almeno così mi vedo –, con le mucose lacerate, squarciata e priva di sensi; sono troppo stretta.

E Lui si piazza fra le mie gambe ed entra, con due dita entra, spezzandomi il respiro. Annaspo.

“Devi rilassarti adesso”, dice, mentre con la mano libera mi accarezza l’interno delle cosce, sfiora delicatamente la clitoride e scivola sul culo lentamente. E’ dolce, sa esserlo.

Mi tocca, mi confonde, mi eccita. Lui affonda, ruota e resta fermo. E il mio corpo risponde, esattamente all’opposto, prima che la mia testa comprenda. Poco dopo sono tre dita, entrano ed escono trascinandomi nel loro movimento, avanti e indietro, accompagnate dal canto metallico delle vibranti catene.

Le pareti avide del mio sesso l’abbracciano, le risucchiano quelle dita, e l’immobilità che a momenti Lui v’impone mi dà il tormento. Voglio di più.

Impercettibilmente spingo il bacino verso il basso, così da agevolare l’entrata. E il rollio della sua mano ricomincia dolcemente, spossante, con quell’oscillante andirivieni dell’altalena che sembra assecondare e cullare la mia voglia. Sono una pervertita. Non volevo che Lui proseguisse, ma ora non desidero altro. Voglio il suo pollice ad ondeggiare sulla linguetta tesa della mia clitoride: morbido, leggero, deciso. Voglio essere presa e divaricata dalla sua furia. Voglio di più, ancora di più.

Inarrestabile Lui, lascia che la piccola gabbia glabra s’adatti a quell’apertura costante, indugia nell’agonia del mio piacere crescente, accarezza dall’interno quel finto cuore che palpita; e poi, incuneando, fa scivolare anche il quarto dito dentro e m’allarga, a palmo aperto. La presa è salda. Lui resta fermo. Ancora più a lungo rinvia e poi, stordendomi, ara a fondo: i nervi si tendono e i sensi accesi mi sparano al cervello scariche elettriche che, intense, mi stravolgono.

La solca mi ossessiona, rotea e scava, s’incunea sul fondo, stende ogni piega, sfiora la cervice. Ed io mi sento completamente alla Sua mercé, mentalmente prego che non smetta; ad ogni pausa d’adeguamento di grandezza la mia figa pulsa, lo cerca, l’aspetta, smaniosa venera quella mano che la pretende e che incessantemente la violenta.

Ed è in un’interruzione di quel giogo che, per un attimo, lo guardo: i suoi occhi sono palesemente divertiti; il ghigno della soddisfazione arriccia le sue labbra.

“Ti piace vero, bambina?” domanda, vezzeggiandomi teneramente, senza per questo aspettarsi davvero una risposta – lo sa già che mi piace, lo sente –.

S’accorge che sto venire.

“Non ancora!” dice, ed è il tono di un uomo che non ammette repliche, che sa dove vuole arrivare.

“Brava cucciola, è così che voglio sentirti. Rilassa l’addome. Respira, lasciati andare”.

“Sei Mia” sussurra, e appena sente che sono pronta, quando le mura in cui affonda sono languide, la muscolatura interna ben distesa, inizia a flettere le dita, tutte insieme le richiude su se stesse, con voluta lentezza; e nel mentre, preme il pollice all’interno del palmo e lascia che scivoli dentro insieme al resto, nel pugno che si serra e mi gonfia il ventre. Mi sgomenta il piacere che mi dà.

Mi turba, mi trascina. Mi rovescia in me stessa.

Lui poi rinvia, si trastulla con il tempo.

Rallenta i movimenti e rimanda la mia voglia assuefatta mentre volge in smania.

Lui mi consente di prendere coscienza – restando immobile – della sua mano chiusa dentro, del suo pugno fermo che mi dilata oltremisura, finché riavvia l’altalena a stantuffo; e mi sorprendo, di non sentire alcun dolore.

Solo mi sento squassare.

Irrimediabilmente mi lascio trasportare – dimentica d’ogni tensione – da quella forza che mi gonfia; permetto alla mole della mano di raggiungermi il fondo, al Suo polso strofinato tra le labbra di divaricarmi, di colmare quella bocca concitata e ingorda che già ama quel boccone troppo grande. Mi piace, da impazzire mi piace.

“Adesso”, incita. “Godi adesso”.

E godo. Godo dell’attrito del pugno nelle contrazioni, delle onde che mi scuotono mentre vibro e gemo frastornante come le catene; vengo senza maniera, in modo esuberante, quasi eiaculando impropriamente. Le percosse dal sesso mi raggiungono il cervello, l’annientano. Mi sento morire in quell’incombente frenesia.

Uno degli orgasmi più belli della mia vita.

Inimmaginabile.

Imprevedibile.

Le ultime irreversibili sboccate e Lui scivola via, esce naturalmente sospinto fuori; e mi svuota, mi sgonfia il ventre.

Per un lungo momento resto con gli occhi chiusi e quando li riapro, Lui, è vicino a me e mi accarezza la testa; slaccia la cinghia del bavaglio e mi libera la bocca.

Nei miei occhi istantanea la riconoscenza, il sorriso appagato sulle labbra, da cui con orgoglio si lascia contagiare e mi risponde. Mi sorride.

“Ora ti slego”, dice, “rimani sdraiata”. La sua voce è di nuovo dolce, di nuovo avvolgente come seta.

Si piega su di me, e mi bacia.

Un bacio lungo e intenso in cui gli riverso la mia gratitudine per quel nuovo piacere regalato, e sfogo – felice – quello che provo: la mia passione, il mio amore smisurato.



(A Michael – Sessione n. 66)