05 maggio 2006

Primi Passi


di Kumiko

Non è che io sia sempre stata così, sono cresciuta, migliorata. Ed è l’esperienza forte che è seguita, ad aver contraddetto e sovvertito la mia educazione originaria.

L’essenza dell’indottrinamento successivo ha trovato la sua forza nella mia volontà di crederci. Di riconoscervi una superiorità.

Ogni nuovo passo intrapreso, ogni osservazione, attraversava la mia mente. Ogni concetto era una lezione, ed aveva uno sviluppo controllato e certo, non era soggiogato dal caos irrazionale che invece normalmente imperversava la mia testa. E per cosa? Per la crescita? Per le angosce esistenziali che ovviamente c’erano?

Finalmente, mi si dava un ordine.

Era una bella sensazione, rassicurante. Di potenza. Mi forniva una possibilità per poter gestire l’incontrollabile: l’impatto con la vita.

Così, ho cominciato presto a capire come trascendere il dolore, come negare l’umiliazione.

Ma prima di tutto, dovevo fare conti con la mia sensibilità, con la storia della mia infanzia, dovevo lavorare sul disagio che mi portavo dietro e comprenderlo, per passare al livello successivo. Ero un’introversa con una fantasia deleteria, veicolavo i messaggi alterandoli, e nel sommarli li degeneravo nel tempo in opinabili convincimenti. Ero ansiosa e trincerata per difesa, nell’analisi dei gesti degli altri, cauterizzati arbitrariamente con le emozioni e le parole, con le situazioni e le altrettante interpretabili conseguenze.

Ero? In parte lo sono ancora, ma diversamente ora lo so.

E adesso rido, di scherno, quanto basta, su questo, per restituirmene la deformità.

Così, dicevo, ho iniziato presto a sentire come trascendere il dolore, come negare l’umiliazione: sbattevo la testa sul cuscino, per ore, e non sentivo la pelle infiammarsi nello sfregamento; serravo gli arti a sostenere l’urto, tra le sponde del letto, e non avvertivo l’indolenzimento e il formicolìo che dopo avrebbero impedito il mio naturale movimento. A vedersi, riconosco, la scena era allarmante. Ma così riuscivo ad annullarmi la mente, a non pensare, a quelle banali consuetudini che mi erano state di umiliazione e sofferenza: un rimprovero a casa, un rifiuto a scuola.

Un claustrofobico masochismo infantile.

E mi perfezionai in seguito, affondavo le unghie nella carne per affrontare le prove che mi si ponevano col tempo: un incontro, un esame. Tentavo di contenere la mia impressionabile emotività, esasperando la ricerca della perfezione. Mi era impensabile l’essere impreparata, il non sentirmi all’altezza: c’era la laurea perfetta, i viaggi da fare, il fidanzato che innamora i tuoi e ti porta all’altare… E, se qualcosa andava storto, o meglio se lo credevo, mi ponevo davanti allo specchio e fissavo la mia immagine riflessa. L’assalivo, la distruggevo, mentalmente. Tenevo gli occhi sbarrati finché non bruciavano e scendevano le lacrime.

E se non bastava, erano schiaffi. Da sola. O peggio, provocati, da chi altrove finivo per coinvolgere.


di Perry Gallagher


Finché non incontrai Lui, insieme alla mia comprensione. Lui, una precedente conoscenza, troppo sicuro, troppo arrogante, troppo possessivo, troppo assente, troppo pericoloso: troppo sexy, Michael.

Perché, quanto ancora potevo resistere in quel modo? Quanto ancora poteva sopportare la mia forza e il mio autocontrollo? Mi ero costruita da sola una prigione di cristallo: bellissima all’esterno, annichilente dentro. L’opposto preciso di quello che poi avrei voluto.

E l’incongruenza allettante di quell’incontro, decisivo rispetto ad altri, era l’unione della sofferenza con l’euforia, e la consapevolezza che essa non dipendeva da me. Per la prima volta mi si diceva di non pensare, Lui avrebbe pensato per me. Per la prima volta, qualcuno imponeva un equilibrio alla mia mente, riusciva ad entrare abbastanza a fondo nella mia coscienza da prevalere sul dolore, trasformando la mia sottomissione emotiva in una benedizione.

Mi trattava con una sconcertante mescolanza di fermezza e di cortesia, ed io sentivo di nuovo il potere della trascendenza, finalmente cominciavo a capire: ci sono pianure sconfinate in mente.



di D. Brian Nelson


Ancora oggi, la mia devozione e la mia dipendenza più profonde, sono nel vedere in Lui il mio alleato, la mia corona di spine, il mio letto di chiodi.






(A Michael, 5 Maggio 2000)