30 gennaio 2006

L'attraversamento dell'IMMOBILITA'


Marie Jinno




Il legno della tavola sul lato della porta semiaperta,

il legno del parquet finemente lucidato e bruno, la luce che batteva sbieca,

mi raccoglievano nell’angolo,

in attesa,

occhi alla parete chiara.


Ripetevo a ipnotizzarli i minuti della pendola sul muro senza sosta,

perdendoci la testa, la mia irriconoscenza,

fino a stancarmi del corpo nella posa.


Il silenzio cominciava a farsi largo,

spingeva sostenuto sulle tempie,

catalizzava il mio pensiero,

seguiva i contorni della pelle,

riconosceva le mie forme,

le plasmava,

fingeva le mie gambe in movimento, i miei occhi

oltre la porta,

le mie mani sul tela della lampada oscurata.


Era

la hora daliliana che si scioglieva in testa,

le parole

si piegavano in soprannaturali controsenso,

le contorsioni del ragionamento,

io ammazzavo il tempo, l’allungavo a piacimento,

mi contenevo sulla curva delle lancette di un dipinto, ero

in disfattismo acrobata di me.

Il mio masochismo.


L’immobilità e la lotta contro l’urlo di una mente sempre in movimento. L’occhio

occipitale

restava aperto tra le piaghe del mio tempo.


La sorpresa del rumore, l’attesa

di un avvenimento,

la catarsi funambolica di un’ipotesi e del suo svolgimento.


La scoperta

di trovarsi mente senza corpo,

l’avvertimento al cambiamento.


La paura che mi veniva incontro, in fuga

dal ripostiglio sconquassato sotto la pressione sensoriale, dopo i tempi morti,

immunodeficienti,

all’appropriazione dell’azione sul dolore del silenzio

e sul diluvio

dei recettori a scaricare ogni energia sommersa.


Io mi davo

alla comprensione sottointesa,

alla parola oltre l’apparenza,

oltre il significato manifesto ed illusorio,

io scandagliavo

di luce tattile,

con la pelle la rivoluzione dell’ascolto.


Il freddo

l’avrei sentito in cinque punti, dilagante,

le dita al prima tocco,

la scia gelida a scendermi la schiena, nel ghiacciarsi

della consapevolezza,

l’essere che esiste oltre la mente in corsa,

nell’immobilità, con lo scaldarsi

del corpo che si abitua, si stempera alla differenza.


Il passaggio del calore non visibile,

lo scambio

che ricongiunge all’equilibrio.


Io, in anestesia di movimento, vivevo della pelle,

sulla pelle accesa,

la risposta immaginifica e continua.

I pori aprivano e chiudevano, proclamavano

il proprio desiderio in rispondenza, dialogavano

con lingue silenziose,

innaturalmente conosciute.


Contro il legno

ad integrazione del mio ventre, sotto i piedi

attaccati al pavimento,

io

distaccata,

in ammirazione,

percepivo tutto oltre il gesto, io neuronica e d’inconscio.


Ero la meraviglia dell’immobilità intelligente,

lo stupro al conoscibile,

l’entrata trionfale dentro il dubbio,

nel segreto concepirsi.


Io, nell’immobilità,

ero il mio risveglio.






(A Michael)