05 aprile 2006

Onirica


di Calvato


Si vaga per ore lungo il sentiero che dal centro abitato conduce in aperta campagna, verso l’oasi di una spiaggia verde isolata dal nulla. I confini del mondo sono pantani di limo e conifere azzurre che increspano il cielo. Nello sguardo disperso, solare, quando il vento si innalza, la terra convoglia in nugoli fitti di nebbia, e lì il cammino prosegue più incerto e scostante, si lascia spogliare, è nuvola e fòlaga, si trasporta col rumore del fiume. Finché, ascoltando il canto dell’onda, il terreno si piega molliccio e fa cedere a terra, accecando, arrivando sui palmi. Le ginocchia incontrano il luogo del voto e l’oracolo marchia del verbo, “sei in prestito”. E subito il cielo è piangente, conduce all’abbraccio di un argine aperto e si concede al sinistro.

La conoscenza del suolo è un déjavu mistico, una consapevolezza atavica sull’essersi visti, zolla, infinite volte rovesciata, ripetutamente nel fango, senza mai sapere dell’orizzonte la fine, del varco il vuoto seguente o almeno del luogo l’origine, eppure senza mai poter negare della catarsi l’incanto o di tutto ciò che è intorno quello che si definisce il momento. Così ora si vuole chiamarlo limbo, questo invaso di confine, quest’anacoluto dell’essere all’inconscio.

Magari è un sogno lucido.

Il respiro soffoca, è assente, ora è involuto e sembra un bisbiglio d’humus, si risveglia in sottobosco – si ricorda il muschio –, mentre stringe a nodo lo strisciare degli insetti tra il fogliame, proprio dove, cautamente, la voce ruscella tra le siepi e l’agguato ramifica i rovi.

La marea dell’erba è raggiante e s’ingrossa, viene incontro, mentre s’avvertono le marce silenziose di quando le semenze confluiscono l’un l’altra in orgiastiche rimesse, e si riconoscono le immobili corse dei canneti che a forza impalano le melme, perché nel mezzo ci si trova, mutando a propria volta, ora in terra ora in acqua. Ci s’impasta.

E i piccoli scoli ovunque guardano, loro sono neonati imprigionati tra le fratte, fanno fatica a muoversi e, come piccoli ditini di bambini, scavano la fragile argilla e non ignari, fausti, se ne colorano coprofili, finché di nuda superficie poi – di nuovo – tornano lucidi, levigandosi alla lingua di un torrente adiacente. Dove si cerca di loro, qualche volta, quando la biscia improvvisamente si affama, la biscia dal collare si sporge esagerata inseguendo dalle terga le zampette convulse di una rana, e si trascina così, empia, proprio dove l’acqua più ristagna.

E mentre si nuota ad occhi chiusi dove il nero maggiormente imputridisce, gli altri intorno si dilatano, festanti, affogano in un giallo di ginestra e come quadrupedi anuri gemono il canto del non ritorno. Ci si rende conto, così si nutre lo spettacolo esaltato del proprio e del loro degrado, che è rinascere.