LETTERA A MICHAEL
Dammi, ti prego, dammi il dolore che segue la colpa, che segna le membra, che la voglia invadeva, che la mente svagava, nei ricordi che inventi, che annienti, come un cortometraggio che inizia e finisce questa pellicola insazia, che prendi di fame, che rendo di sete, che squama, che scava fin dentro le ossa.
Dammi, ti prego, dammi il dolore che sai, che senti, che densi e mi devi, fino ad essere larva schifosa al tuo sguardo, un insetto noioso che scacci e poi, schiacci, perché è questo che voglio, non provo l’orrore del buio allorquando m’attacchi alle spalle, allorquando la luce del giorno ha la quiete della solitudine a vista. Fammi allungare ai tuoi piedi in tappeto di pelle, per offrirti il mio corpo d’appieno, che implora ed onora, e s’arrende senza remora ancora, come il sole d’estate che accalda, come la pioggia d’inverno che allaga. Fammi annodare d’ombra ai tuoi piedi per trovarmi lì quando mi vuoi, uno strumento accordato alle mani, che vibra di gemiti e grida, suoni ed echi riflessi, che non appagano un piacere egoista, ma assolvono giusti gli ordini tuoi. E sì così fammi godere mentre mi batti ad orchestra, perché la più armonica delle corde è la nostra, una frequenza con cui mi voglio stordire, affinché domani s’ottundano i limiti, a insistere toni più grevi, al sangue che bolle, che esalta, che aizza la carne sul cuore. E sì così fammi, fammi anche adesso, adesso che sei soddisfatto di rabbia senza affetto ad arrestarti la forza, una spirale d’angoscia che sfoga nell’estasi. Dammi, ti prego, dammi il dolore, perché la pelle ha un segno di fuoco che sfoggia, ha un dono d’ardore che infiamma. Dammi il dolore per essere oppressa e per essere assolta. Dammi il dolore a vessare quei versi, versioni contraffatte di carta ed inchiostro che m’avvolsero l’anima come tele di ragno.
Perché avrei mai dovuto aspettare, quando sentivo d’esser svanita, anche se dentro tu c’eri, se fuori cercavo un padrone diverso, che piega, che piena la mia avida smania d’umiliarmi la mente. Ma non m’ha davvero poi presa, non che non l’avessi voluto, ma non m’ha davvero impiegata come quando mi sfidi cieca ai tuoi sensi e mi spingi smarrita tra braccia assuefatte, tra legacci di gabbie, come se fossi una belva affamata, aspettassi la frusta dove ora m’allarga la foga e l’aspetto, dove ora t’offro quel marchio cosicché tu possa spellarlo. Scuoiami, scorticami adesso il culo che immolo, la rosa che ami, dammi piacere con questo potere che a nonsenso m’induce al mio più intimo io.
Qui solo trovo me umile e vera, trovo la vita che avvinco e m’avvince, primitiva creatura di donna, buco bagnato d’onore opinato, trovo me stessa e trovi te stesso, trovo passi inconsci su strade sterrate, orme ondivaghe, perché il percorso a seguire m'è ignoto, istinti spietati che spiegano intenti, che tu indichi e insegni per darmi coscienza. Sgomentami d’ira che provi ritrovandomi indomita, che sono fiera ed altera, schiava d’amore per sesso che sbava, che lava perché io sia femmina finalmente del tutto.
Dammi, ti prego, dammi il dolore che figge il respiro al pensiero, se poi dovessi saperti d'un altra, se poi le mie ore s'accorciano ai giorni che spassi con lei, che spossi che squassi annullandomi a dire che non sono più nulla. Fammi l'amore! Dammi il piacere così col dolore, così che poi sento che premi, che fremi, che gemi a sfregare codesta carne bruciata, che tra le gambe m'incendi come vento che soffia, che secca sopra un mare di sale. Fammi l'amore! Dammi il dolore così col piacere, così che sangue e semenza non permettano tregua, non promettano sosta quando resto da sola, quando in attesa la fiamma non fiacca, la bocca non batte fra queste cosce di creta. Ti prego fammi servire il rispetto di starti più sotto che posso, di cedere come carta che straccia, che scanna le dita e mi slabbra la fica. Cedimi, ti prego cedimi, come mai hai finito per fare, fino a farmi ferire, sfinire le labbra che brillano, che invecchiano al tempo come un sesso da dare in affitto.
(A Michael)