13 giugno 2005

QUESTIONE DI TEMPO


L'immagine è di D. Brian.


Sarà che eseguivo alla lettera le disposizioni che ordivi al telefono, quando ancora ero in auto e tornavo da un lavoro prolungatosi oltre l’orario. Sarà che non pronunciavo parola in quel breve momento, la Tua voce improvvisa e voluta occupava d’impatto ogni recesso nascosto della mia mente, annichiliva nell’estasi anche la più involontaria delle mie facoltà. Poiché poi Tu vuoi sempre che io solo t’ascolti, senza interromperti mai, anche il respiro sembrava fermatosi a lungo.

Da giorni agitavo i pensieri dentro il ricordo, dentro un desiderio pulsante d’urgenza, che col tempo s’era montato ad assillo spossandomi l’anima e il corpo. Così in quel momento, intralciata dal traffico, ero un fremito freddo, temevo di ritardare colpevole i tempi, se non peggio d’esser ragione di rimandarli del tutto. Sarà che ho iniziato a slacciare il talieur già mentre percorrevo il cortile, che mentre salivo i gradini ho sganciato il corsetto senza pensare che qualcuno potesse stare a guardare, che ero arrivata ansante ma armata d’energia come Tu solo sai darmi.

Alle prime luci del buio, stavo appiattita in attesa alla spessa porta d’ingresso, solo il mio respiro c’era leggero nell’inerme silenzio. Ancora qualche minuto e avrei udito il Tuo passo come un costante richiamo, come un pendolo che continuo scandisce ma che d’improvviso s’arresta, come Te oltre quell’unico uscio fattosi più sottile d’un velo. E di lì a qualche secondo mentre quel pallido cono di luce avrebbe sbiancato sul muro, io avrei aspettato e inghiottito quel lento girare di chiave come una morsa a comprimermi i nervi.

- Ciao piccola - hai detto, spiegando una voce limpida e asciutta, increspando leggermente le labbra in un morbido riccio come a pregustare un assaggio.

- …Michael… - ho sussurrato appena, indietreggiando un passo, un passo impercettibile ma di consapevole calcolo.

E qui, come sotto la spada di Damocle, il tempo cominciava a rallentare il suo conto sotto l’assoluta costanza del Tuo sguardo in silenzio, in cui i minuti allentavano i giri e i pensieri rifrangevano ad onde sulla barriera degli inavvertibili gesti, sul muro che muto mettevi a dividerci, quello stesso che subito poi lasciavi ci unisse.

Sarà che passavi incurante, della presenza mia nuda, da un bicchiere scelto con cura a un liquore che a voglia volgevi a versare, che indugiavi distante al di fuori sul mondo, al di là su una morente eclissi serale in cerca d’una luce fra le innumerevoli ombre che attraverso le tende, dall’altra parte oltre certe finestre, aprivano vinte le ante in offerta alla palazzina di fronte. Sarà che salutavi magari qualcuno lasciandomi inerme, in vista d’uno sguardo qualunque, che pronta come una corda tendevo l’attesa, aspettavo il momento di sentirmi sfiorare, solamente lambire lisciare da un unico e unito respiro che caldo avrebbe disciolto quei nodi che il desiderio stringeva al pensiero.

Ferma ero immobile come un’ombra cinese, modellavo il contorno alla luna sul muro, guardavo la giostra d’ogni Tua mossa, in un gioco di sogni ad un palmo dal volto, mentre scoprivo nivea la schiena, tenevo i capelli tra le dita sul seno, offrivo candido l’arco del dorso.

Godevo d’attesa, d’ombre e di luci, di possibili incontri sui sensi sinuosi, fossero gelidi oppure gentili, improvvisi oppure previsti, godevo dei suoni e dei fiati sospesi, godevo ad ascoltare i silenzi, i Tuoi passi vicini o lontani, godevo a pensarmi già presa, a soffrirmi in un’improbabile resa che lasciavi salire senza cadere in un’estasi ràpida e avara.

Godevo un orgasmo che risuonava più volte, in più tempi della mia mente, per un momento, lo stesso, che Tu sempre sai far allungare, avvinghiare all’amabile eterno.


(A Michael)