CONTINGENZE
Quando le vedo intorno sento che mi chiamano. Il loro fluttuare nel buio è come una danza, sono balenii saettanti che attirano sguardi. Eppure all’apparenza sono così insignificanti, moncherini di carta e foglie secche. Non posso fare a meno di guardarle, per il loro volo sfrenato, per la loro capacità di dare dipendenza. E’ la brace fumosa il preliminare alla persuasione. All’imprudenza.
Loro salgono e scendono contaminando le dita, dal banco alla bocca di ognuno che tira, gli risucchia la vita. Loro non sanno che le guardo, eppure la sensazione è di rapido richiamo. Eloquente, quasi esuberante, quando si fanno accese.
Lo so, finirò per avvicinarle a me. Non chiedo altro. La loro esibizione martellante, sinuosa come uno strascico. Riesco a vederle in fluorescenza anche se chiudo gli occhi, dove mi piace perdermi, tra gli avanzi delle cose che raccontano storie. Loro sono, me ne rendo conto, sindromi della mia astinenza, allusive da sembrare frenuli tesi.
In me, non c’è alcuna ammonizione cerebrale e concreta (affusolato motivo di resistenza) che crei confusione e distolga lo sguardo. Talvolta, almeno.
Loro sono determinate a condurmi al biasimo. Mentre ne seguo la sottile estensione, dal moncone alla punta.
Il loro trascinamento è ipnotico e confidenziale. La loro movenza è proibitiva, mentre si poggiano simboliche alle labbra, dove scende l’orlo ad ogni tiro, crea un’ansa languida lungo l’estremità, dilatando.
Le falangi stringono, percepiscono. Hanno la consapevolezza della penetrazione, dell’odore che si posa addosso.
L’assenzio che anch’io sento. Il sedimento acre.
È nel rito la logica (banco – bocca, labbra – dita, ed ancora dita – bocca – lingua – gola), studiato nei minimi dettagli (scosse dell’addome mentre espande) ed atteso di nuovo ad ogni interruzione, ad ogni sospensione… così indolente.
Le sigarette hanno vita propria. Le seguo nell’azione, ma è la reazione ad incantarmi. Quando si fanno imprecazione di luce al buio, anche a distanza. E’ la brace intensa che mi è stimolo, riprovevole lesione per una ragione avulsa. Mi è atto di forza sulla mente mentre pulsa, e pensa, suggestionata dai moti d’ansia. Loro sono il legame col passato, il ricovero efficace del mio vuoto. La mia benedizione.
Ho avvertito il bisogno di una loro manifestazione dal conflitto con la repulsione (processione di capillari, di cicatrici), da visualizzazioni allucinate (braccia, bruciature che rinnovano consensi, i marchi dell’appartenerti), dalla circostanza (nascondiglio notturno di presupposte violazioni), tutto questo mentre me ne sto seduta a un tavolo, loro al banco, in corrispondenza di un’alterazione ebbra che mi incoraggia. E non sono ubriaca, solo in ammissione di me stessa.
Mi alzo e mi avvicino. I miei passi sul pavimento scuro, tra i tavoli e le risate indotte. Arrivo e mi rimetto alla decisione di chi per loro. Due uomini. Portano lacci colorati e stretti, neri, il vecchio codice hanky di cui mai ricordo le combinazioni. Potrebbero voler essere lasciati soli, potrei sbagliare e, certo, sarebbe un rischio. Non dico niente, aspetto, il momento spacca in due la mia consapevolezza. Poi, uno sorride. Mentre l’altro mi serra in gola i suoi occhi freddi. Non ricambio il sorriso. Pressante, oppongo lo sguardo all’altro, allungo una mano e sfioro, la lunghezza – tutta – della rossa accesa che stringe tra le dita. Una Marlboro, la mia preferita.
Si scoccia, sembra e non dovrebbe, potrei andarmene, fa un gesto brusco e quasi con violenza mi allontana, mi scansa. Prende un’altra sigaretta, l’accende e l’aspira a fondo, esaltando il luccicore della paglia che denuncia la posta in gioco. Poche le parole. L’incertezza e la diffidenza trovano risposta tra i rumori che percuotono. Non c’è scavo di coscienza oltre il dovuto. Solo frammenti di conversazione onirica. Il luogo quello sì, ma non il nome che si dimentica. Il modo, la macchia che si dovrà vedere. E niente sesso, loro eseguano pure che io guardo. E’ il nulla che voglio, il dolore ad prolungarmi tutta la consacrazione a te.
Cerco la contingenza che si fa intento imprevedibile. Tornite ed eleganti, voglio escoriazioni senza pentimento (bolle sulla pelle), da bucare con espressione d’estasi. Continuo, la legittimazione al piacere che mi dai. Mi concedo piccoli flagelli, croci dolenti, penitenze ad incidermi con stoccate fitte (fasci di mozziconi monocromi addosso).
Proseguo dove stabilito. Non molto lontano, un divano. La denigrazione dell’intimità. Dove le bocche si cercano, la lingua, i tiri di fumo. Prima e dopo conferme (gratitudine riversa in liberazione) di me tra loro. Il disagio è cieco contorno. L’ordine, la successione degli incastri di corpi, gli effetti senza ragionamento, il tempo, l’addome scoperto, il cerchio che ancora non c’è, il seno, il prezzo che pago al richiamo. Le stoppie, asili che chiedo, allontanate ed offerte. Dilazionate a dare vergogna. La mente, tra lo sfregio e l’insulto. L’esasperazione. Il bisogno. Lo voglio solo sentire. Chiudere gli occhi ed allentare la presa. Abbandonarmi al giudizio, alla collera. Al castigo della punta che scava la pancia. La lancia che mi trapassa sul fianco, al breve contatto come di ago che punge. La cenere che prima rifulge e poi, spenge l’agitazione che preme, spinge senza interruzione sull’inguine. L’acuto lo sento, il voto lo faccio, mentre il nero residua e sfuma sul rosso.
Mi incidono e sento, a fondo, te, più volte e più volte dentro.
(A M.)