C. e me, quello che c'è
Le inibizioni, quando ormai sono convinta che non ne restino più, ecco che invece si ripresentano con un’altra che crolla.
Eppure, ora che sono caduta in basso, mi sento più forte. Più impassibile e sicura nell’incassare i colpi. Più dura nel dare il benservito a chi si avvicina e mi induce al dubbio che il gioco non valga la candela.
Più cinica e abile a liquidare chi sfoggia un senso di superiorità non appena apre bocca. Ma inguaribilmente fragile con chi mi lascia trapelare natura e sentimenti, offrendo spettacolo di sé, senza disprezzare. Con chi mi apre il suo dolore.
C. mi tratta come una potenziale allieva anziché come una schiava.
Io gli offro il mio corpo senza scompormi, senza fingere di provare l’estasi della gioia solo perché ci si ritrova insieme in qualche posizione aggrovigliata. Ma non posso evitare di affondare morsi nella sua carne quando mi mostra la sua soddisfazione, di graffiargli il volto o le braccia quando giocherella con le ciocche sudate sulla mia fronte. C. mi rende malleabile, così insopportabilmente malleabile da potermi piegare o raddrizzare con l’accenno o meno di un sorriso.
C. sa che potrei stringere i denti e andare via senza grandi sforzi, che non mi lascerebbe alcun senso di vuoto, che potrei ignorarlo pur avendolo accolto dentro di me, e sputargli in faccia se ne avessi l’istinto. Ma C. mi prende tra le mani e per sé, come certi uomini prendono i capezzoli tra le labbra, mi succhia ma mi lascia intatta. Non mi procura preoccupazioni, anzi mi esalta, così ogni giorno mi manca il motivo per andarmene e constato invece con sorpresa lo sviluppo del nostro rapporto.
Tra noi non ci sono complimenti, non ci sono atteggiamenti melensi. E seppure mai implorante, mai febbricitante, completamente priva di un timore reverenziale, seppure combattuta perché la sofferenza insiste a sbattermi contro un muro facendomi restare senza fiato, mi piace permettergli di capirmi a fondo. Mi piace perché riesce a farsi sentire. Nessuno dei due prende più di quanto l’altro vuole dare.
C’è la sincerità a illuminarci.
La lucidità ci fa pulsare la carne senza che a tutti i costi si debba sudare o ammaliare per riuscirci. Siamo semplicemente noi stessi.
In questi giorni, ho la sensazione di emergere dalle tenebre tenendo il mio guinzaglio in mano, lo sguardo sollevato in cerca di approvazione… sì, ma da me stessa, davanti allo specchio che C. mi porge. Per tornare a riconoscermi.
Ecco perché non mi viene in mente di andarmene, mi è assurdo anche solo pensarlo, se non per il brivido dell’ignoto che mi genera.
Con C. non posso fare a meno d’udire lo squittio e lo scalpiccio dei miei sensi sollecitati come topi. Perché mi sorprendo a volte, a trovarmi riversa sul bordo d’un tavolo o a stringere le mani ad una qualche superficie di punto in bianco. Sento il sangue scorrere nelle vene come un’orda di topi raccapricciante: topi lesti come blatte ma soffici come gattini. Dove l’essenza mi rampogna, snidandomi dal buco, a sbalordire le mie consapevolezze.
Se sto imparando una lezione, dal mio rapporto con C., è che il coinvolgimento giunge inaspettato, man mano che l’ombra che separa diviene familiare. Per un tutto o per un niente. Purché sia Vera.