06 dicembre 2005

INCRINATURA

L'immagine è di Martin Rafael Class



Lo ripetono i vetri, i solchi scavati dall’acqua su di essi lo ribadiscono cauti: la voce veloce è lingua sui denti a battere false parole, è paranoia pendente al cervello scipìto.


Lo ripetono i vetri: il suono che trattiene il respiro, è cornamusa svezzata tra le più aride lande. Lì, dove la speranza non vuol dire ricordo, ma un fazzoletto annodato sul collo.


Da chiunque, basta che abbia le orbite vuote, così da dirsi padrone, padre di teorie novelle, di un’incerta bambina che è folla di umori, di parole a colare su tovagliolini di carta.


I vetri lo dicono, con una trapunta di luce riportano agguati e bellezze, prima che la caccia nel mare ne celebri a notte il momento affiatato, quello di schegge di cielo che si rincorrono ai prati, in cerca di appuntamenti da fotografare, attraverso sfalsate diottrie o prospettive di cattiva memoria.


I vetri ripetono, io li sento, col vento, mentre stanno appannati oltre il respiro, per giustificare un amore cresciuto nel buio, senza segnali. I vetri sono reduci della serenità, danno attenzione e valore all’incoscienza di un fiore, tumefatto come il canto di allarme di una vecchia baldracca.


E’ la prole degli infidi che da sempre resta in attesa, smisurata al fastidio e alla tensione repressa, di tutti quei passi sfibrati sul dunque.


Perché si vorrebbero sempre signorine affogate dentro i colori, tra gli ordini che anime vaghe stringono ai polsi, per inventare i bei sogni e le cose non ancora successe. Si aspetterebbero ancora melanconiche voci a sorvolare i pensieri e cronache fisse su facce sgranate, per avere sempre l’incomprensibile gioia di un qualche orizzonte.


Sì, si considererebbero sempre albe a venire senza un rifugio. I vetri lo replicano come sogni infiniti, sarebbero rotolanti campane i giorni a pensarli, se gravi mancanze non fossero attratte dalle scollature del tempo, dalle giravolte susseguitesi nella cruna di un ago. Lì, ove mai si è sentito un rintocco di vero sconcerto, ma è stato il silenzio a guidare le piume tra litanie infrante, tra corpi di acque stantie per prose in esubero. Di cui questa è un esempio, un tuffo ancestrale.
Sì, i vetri a volte rivelano, non riflettono più scolarette sinuose sotto campane di vetro, ma ostili intuizioni di profili bacucchi, albini come sorrisi in corsia d’ospedale.









(Di me, a volte)