01 novembre 2005

Come un CONFETTO

L'immagine è di Roman Kasperski


Ottobre era ancora caldo. La pioggia carezzava i muri frizzando l’aria appena appena. Una nebbiolina nascondeva che ora fosse del giorno. I vetri erano appannati dall’interno. La luce filtrava fina fina, attraversava la cortina spessa delle tende e ravvivava il verde dell’organza. Si diffondeva un chiarore a modo di bambagia e, in un certo senso, questo confortava. Era piacevole sentire lo strascico degli orli in macramè sul pavimento di moquette. Tutto quel colore d’erba era etereo. Si seminava come muschio sopra il legno del mobilio, raggiungeva le pareti e si arrampicava sul soffitto, tornava e si sdraiava languido tra le lenzuola ancora sfatte e, infine, si perdeva in un riflesso di se stesso dentro l’armadio a specchio; era sempre come avere il frusciare della seta intorno, il piacere impalpabile del nulla. Tutto era in una nube immaginaria.

Tutto sembrava un prato al tramonto.

Dovevano essere circa le sei. L’ora tarda di un pomeriggio d’autunno, un giorno in cui il vento sparpagliava ovunque la sua mise giallo-bruna e rossiccia. Un vento impudico. Già, perché io fantasticavo a guardare quel carnevale del suolo cittadino: migliaia erano le vesti di stagione a infradiciare sotto la pioggia. Sparse e senza riguardo, come donne nude sotto l’acqua. E speciale, come un confetto di una rara promessa, affacciata sopra un vicolo di Roma, c’era quella stanza e dentro c’eri tu a riempirsi goccia a goccia della marea che già agitava dentro, e seduceva me, con lo stupore di una favola. Sorprendentemente.

Stavi lì. Seduta ed incantata nella posa. Abbandonata sul velluto di una poltrona vittoriana come una bambola nuova. Mentre io mi dicevo che eri davvero troppo incantevole per essere vera. Troppo dolce nella resa da convincere ad averti, senza distruggerti in un sogno. Come una bambola realmente. Eri pelle lattea. Di fine porcellana. Ricordavi il candore dell’inverno ed il suo cangiante freddo.

E gelida ti si sarebbe detta, e senza respiro, ma tu bruciavi. Eccome se bruciavi. Inconsapevolmente. Di una voluttà che conquistava. Ed induceva. A venirti più vicino. Vicinissimo. In punta d’unghia. A cercarti nel respiro. Come facevo io, senza più riuscire a smettere.

Più a dimenticare il sapore tra le dita.

Scoperta un giorno, mentre te ne stavi puntellata ad un bancone, fissa nel guardarmi, senza allentare mai l’implorazione dei tuoi occhi. Come quel pomeriggio, già ubriaco di noi, quando il tuo sguardo di nuovo si bloccava e mi colpiva. Mentre seduta con un braccio fermo sul bracciolo e con la mano stretta(-stretta) sulla spirale intagliata al margine del legno, poggiavi morbida la testa indietro allo schienale e tenevi l’altro braccio ripiegato in grembo: non ti muovevi, anche se a volerlo, ti saresti potuta alzare ed in qualunque momento andare via.

Tu, si capiva, conoscevi del tempo il godimento. Quello lungo. Quello dentro di te, con il suo insinuarsi lento tra gli interstizi che non potevi prevedere, quelli che ti inventavo e ti insidiavo tra i pensieri. Si capiva che sapevi, anche se in apparenza restavi immobile e tacevi.

Così volevo.

Per inchiodarmi incredula nei tuoi silenzi. Mentre mi supplicavi muta che ti portassi al mondo o che ti consentissi almeno l’eco di una voce. Per sussultare, per sospirare, e magari per sussurrare qualche parola a pelle.

La tua. Nivea.

Nuda.

Nuda e priva di ogni altra volontà non fosse mia. Così, finché la notte non fosse scesa cupa. Finché avessi voluto. Te così. Nuda e mia.

Ad aspettare insieme l’arrivo del momento. Quello per il quale ti trattenevo per le ali nel bel mezzo del volo. Nell’istante che cincischiavi in carambole elettriche e godevi, tentando la fuga. Al di là del bozzolo, che amorevolmente nel tempo ti costruivo intorno.

Per quella bramosia che amavo in corsa dentro i tuoi occhi. Mentre ti montava in pancia. Mentre io ti guardavo e ti inseguivo, e lei era infinita nel venirti dentro.

Una marea nei tuoi occhi.

In quelle punte di spillo che mi cercavano affilate, che annerivano, come chiodi se t’intimavo irriconoscibile ‘resta ferma…

sta zitta…

fatti inerme…’

E tu restavi immobile, docile ti davi ad ogni colpo.

Ad ogni colpo.

Ciocca a ciocca tra i capelli riconoscevi i denti duri. Riconoscevi della tua spazzola il suo legno e ne temevi l’insinuarsi sulla nuca quando poi scendeva al ventre. Dove scavava.

Svuotava.

Ed ancora scavava.

Dalla radice dei capelli fino al pelo raso del tuo pube.

Io, in piedi dietro di te, soltanto ti pettinavo; ma da non dirti mai come avrei cominciato, dove avrei interrotto la discesa e se, avrei mai accentuato quella carezza esasperante. Perché io insistevo.

Estenuante.

Con lentezza.

Io ti scioglievo. Metodica e solerte, allieva di un Maestro.

Io, in apparenza cheta come l’acqua che ristagna, ma che sottosotto logora le fondamenta.

Tu eri la mia bambola. Eri chiusa a chiave in una stanza. Ed eri bella. Talmente bella che io ti urlavo contro ‘sei fasulla’, nonostante il fremito avvertibile, e della tua bocca la sua curva che si scannava a morsi. Io ti pettinavo. Io ti toccavo. E tu sentivi che i capelli si avvinghiavano e si annodavano. Tra le gambe. Nelle viscere. Li sentivi come lingue che ti salivano dovunque. Dappertutto. Nella mente. Tra i pensieri. Li sentivi. Li volevi. Lo sapevi erano vermi nelle vene a farti mia.

Mia.

Complice ed amica.

Noi eravamo anelli a concitarsi, noi ci sfregavamo contro. Con i capelli, biondi e neri, che si inanellavano in catene e ci legavano già strette.

Amanti.

In un doppio giro di collare.

Così unite da quell’invisibile legame, che ogni qualvolta con il tuo bagno biondo m’imprigionavi, io ti trovavo i vuoti d’anima indiscreti e solitari laddove c’erano i tuoi riccioli ribelli. Quelli dietro il collo in mezzo ai brividi. E lì, intensificavo apposta il tocco delle dita e in risalita, lì, volutamente per arrivarti al ventre, risoluta ti graffiavo.

Una volta.

O forse due.

Io ti sondavo.

Ti misuravo insistente nel respiro. Lusinghiera. Ti incidevo ad unghie nel tuo ruolo. E mentre t’incurvavi dentro un rantolo, io distinguevo i nostri nodi chiusi in gola. I miei e i tuoi. A districarsi i poi di quell’attesa.

In cui lasciavamo affastellare le ciocche come mani, sul viso e sulle spalle, e sentivamo stringere la voglia intorno al collo. Come a impedire il fiato. Fino a sentirla spiovere sul seno mentre scendevano i capelli sfiorandoci a ventaglio.

Ogni onda era l’aprirsi vacuo della pelle, era l’annaspare inconfondibile del corpo, era la scossa della tua grana di ceramica al calore di quel tocco. Inaspettatamente, come fosse un caldo alito. Ed era come esaudire una preghiera.

La tua.

Sempre in procinto di appagarsi. Sempre turgida sui bocci. Sui capezzoli. Dove lunghi ciuffi d’oro si avvolgevano e si serravano come paguri sulla roccia. Come imprendibili creature da possedere con un gemito. Da esigere per sé o strappare dalla vita.

Ed io strappavo. Stringevo e strappavo.

Quegli impeti. Quei fiori estinti tra le dita.

E ‘sei bella’ ti dicevo, mentre sentivo mugolavi e ti irrigidivi nella posa. Mentre fremevi, ed io ti risalivo. Con la lingua dura di un rossetto, proprio su quelle punte così rosee e troppo oscene. Ingrandivo il profilo alle tue areole e ti seminavo.

A schizzo.

Di rosso come fosse di passione. Su ogni bocca a cui tracciavo e rintracciavo la cornice delle labbra. Ancora e ancora. Finché mi interrompevo e ti vedevo, come il fior fiore di un ibisco.

Con tra le cosce un gran calice di petali raccolti, scarlatti e deflorati.

Perché il rosso ti donava, veramente, era quel pulsare vita troppo intensa che capivo non riuscivi a trattenere. In silenzio, tu gemevi. Screziata bambola in cremisi. Senza tregua nel dipinto.

Senza lasciarti mai godere. Trattenuta per le ali.

Mentre io, inginocchio tra le gambe, ti ripercorrevo, su per quella linea scura e fatta densa che ti spariva dentro. Lungo i bordi. Lì dove disegnavo. Dove d’amaranto piega a piega ti striavo, spianandoti le gocce color succo di amarena che inseguivo. Curva a curva. In quell’incupirsi liquido dell’estasi.

Ché il rossocupo l’amavo a scorrerti negli occhi. Lo pretendevo inarcato dal profondo delle viscere a costringerti lo sguardo in una morsa. Inarrestabilmente.

Ti volevo in vertigini vermiglie di piacere.

Ti volevo a dondolare libera la mente.

Eri la mia bambola. Eri il mio regalo senza remore.

Eri per Michael.

Per festeggiare insieme.

Ed eri pronta, velata in quel bagliore smeraldino di finestra, infiocchettata a un polso con un nastro in raso rosso, eri esaltata della tua pelle di alabastro e del carminio delle rose in evidente fioritura.

Eri estasiata.

Preparata alla rinuncia, fino a sentirla acuta nella stanza, fino alla Sua presenza. Violenta come l’ansia che ci raggrumava dentro.

Ogni volta.

Sul finire dell’attesa.








(A Michael e a Irene)