Toccami…
Fino a non molto tempo fa non sapevo cosa fosse l’equilibrio delle considerazioni, la decenza finivo spesso per metterla da parte: cercavo solo sensazioni ininterrotte, emozioni ricorrenti.
Sentivo il bisogno di colmare
Non volevo avere il tempo di soffermarmi, su quello che tenevo dentro irrisolto, accantonato, in quanto sul momento ancora sentivo l’impotenza e l’oppressione. La mia incapacità di scindere la verità dal riflesso.
C’era la consapevolezza del non essere, questo sì, ma cosa? Sicura! E la vivevo come una sorta di automatismo alla sopravvivenza. Scivolavo nei miei limiti, costruivo ragioni e strategie di affermazione, escogitavo difese rocambolesche, appositamente per farmi credere la scelta ogni volta, indipendentemente, più facile ed indotta.
Vivevo senza sosta dentro una crisi di abbandono, di me verso ciò che veramente ero. Mi ha devastato la fase esplorativa, la ricerca di me è sempre stata dolorosa.
Costante. Indecisa. Fremente.
La distanza che Lui di regola frapponeva tra noi, mi apriva infinite gamme di possibilità per portarmi al nulla.
Cercavo di mettere radici dove non c’era terra.
Mi specchiavo in acque torbide.
Varcavo d’incoscienza ponti di castelli di carte.
Camminavo a raggio corto, senza accertarmi dell’oltre, se vi fosse stato il vuoto sarei precipitata di schianto.
D’altra parte, la mia mancanza di cautela è sempre stata una forma di masochismo, perversa, incontrollata, un’attrazione verso il male seppure diversa. È stata sottomissione insana e sconsiderata a volte. È stata emotiva e nostalgica altre, goliardica se con stupore nasceva un’empatia imprevista. Ma avulsa dopotutto, ansiosa.
E ho dovuto risorgere da queste paralisi deboli, più e più volte, risuscitare dopo infinite morti, per imparare davvero a donarmi. Perché il resto non è… che il resto soltanto.
Era il tempo prima della comprensione. Prima della condivisione stretta. Era il tempo in cui l’insicurezza mi lanciava nella fuga e mi avviliva con la sua sistemica cattura, annullando ogni mio sforzo di affermarmi, per un adattamento che non trovava tregua.
Certo, ero ostinata. Lo sono ancora…
D’altronde non sto scrivendo che di poco tempo fa, subito prima dell’ultima rottura, e non sono che pochi mesi, seppure in fondo già così lontani, se penso che inconsciamente ero già pronta più che mai. Ero già pupilla dilatata a conoscenza.
E Lui sapeva.
Ma allora, procedevo nei giorni con un senso disarmante di tristezza e d’impazienza, con l’esigenza di cambiare, con la voglia che tutto rimanesse com’era. Ero piena di sensi di colpa, ero instabile, provvisoria nelle azioni come chi ripetutamente si trova a subire un’interrogazione, senza mai avere la giusta risposta.
E Lui, soltanto Lui, ha saputo lasciare che la sofferenza mi sedimentasse l’attesa. La stessa attesa che oggi invece mi tempra, mi dà forza, trova sicura il proprio spazio senza sopraffarmi la vita.
Oggi l’attesa mi dirada le brume. Mi ara suoli incolti.
Perché se Lui è vero, generosamente mi ha voluta distrutta, Lui mi ha cresciuta, mi ha coltivata con la stessa determinazione che si riserva a un germoglio. Lui mi ha innalzata, perfezionata, e per Lui d’altro canto.
Perché il dolore ha sempre bisogno del suo tempo e necessariamente occorre darglielo.
Brancolavo nel buio e Lui mi ha schiacciata certo,e con tale convincimento, da precipitarmi spesso le certezze dentro il dubbio. Lui mi ha lasciata annegare, fino a consumarmi, ma senza indugio Lui mi aiutata a riconoscermi e a rialzarmi.
Così oggi so, che se ho avvicinato qualcun altro sconosciuto, al punto da ritrovarmi a dire:
toccami… lo voglio…
fammi l’amore…
fammi sentire se sai farmi male…
spesso non ero che netta superficie, ricreazione, istante, un malessere aggressivo ma senza ripensamento, un godimento necessario seppure dissociato.
Perché il fine era perdere di vista lo scompenso profondo, quello che mi depredava dentro. Era il bisogno di giocare, scoprendomi, per allibirmi e infine riconoscermi.
Era ancora il mio non sapermi.
Perché sì, il mio corpo avrà pure dato molteplici risposte, eloquenti, adeguate reazioni, piacere… lo fa di continuo…, ma la mia mente dov’era?
Taceva lontana. Egoista. A volte amica.
Lui solo ne ha tirato a sé le briglie.
Perché è la mente che di me, si direbbe non è facile toccare. La mente! Non certo il corpo, terra approssimata di contatto ma non certo terra promessa.
Per la mente occorre scavare, come Lui fa, scomparto per scomparto, scortandomi in un percorso non lineare. Persuasivo.
Poche altre volte ho creduto che la condivisione potesse raggiungere un simile spessore. Pochi altri ho stimato e stimo d’una complicità che li solleva dal suolo, per una sensibilità che considero speciale, natura estrema.
Così ora chiedo al “tu” altrove, che nonostante mi ha toccata, sapresti dirmi il prisma che mi cela quindi, la consistenza di ogni mia sfumatura?
Ora domando al “chi” che comunque mi ha fatto godere, sapresti anche reprimermi gli istinti?
Ora invito i “coloro” che nondimeno mi hanno donato dolore, a dirmi se davvero saprebbero con me comunicare, in modo autorevole, con una sensazione di armonia fondamentale?
E a questi “voi” ora da qualche parte pongo una questione, voi riuscireste a mantenere, senza che io prenda il sopravvento, l’ordine nel tempo?
Perché più volte è vero ho detto toccami…, per mia masochistica libertà, per Sua sadica concessione, ma sinceramente “quanti” possono dire sul serio d’averlo fatto? D’aver esplorato la mia mente oltre che il mio corpo? D’esservi arrivati, d’averla almeno toccata.
Ditemi, ora vorrei sentirlo…
(A Michael, che mi sa)