28 gennaio 2006

VIOLENCE


Junko Asahina



Certe parole sono difficili da scrivere, ma arriva il momento e zac… un attimo e, i tasti battono proprio dove il dolore da tempo mantiene il silenzio.




Erano i primi di dicembre. Il freddo attraversava i vestiti allora come adesso, e la sera si usciva lo stesso, indipendentemente dal giorno o dall’ora che fosse.

Saranno state le 22.00, Max e Alex passarono a prendermi.

L’idea era semplice, sempre la stessa, fare un giro in macchina e bruciare il tempo.

Stare bene, stare insieme.

Saremmo usciti, qualche nuova da raccontare, magari l’ultima da uno dei soliti incontri.

Sempre anonimi.

Immancabili.

Con la voglia se veniva – e quando non c’è? - di mettersi in mostra con i pesi sui piercing, pelle a pelle, i tatuaggi animali o i tagli d’identità che lasciava l’assenza. E lì come ogni volta, sul momento, se andava, si inventava un gioco nuovo, uno di quelli memorabili che non si chiedeva, accadeva e basta, e segnava fuori e incideva dentro.

Ma, quella sera forse saremmo rimasti in casa se la pioggia fosse arrivata prima: la notte era fredda, il cielo scintillante, e noi partimmo senza meta, con lo sguardo sulla strada, a scovare un posto per intrigare la serata.

Ci piaceva andare verso il centro, dove sempre qualcosa si trovava. Ci finivamo spesso, con un paio di birre tra una risata e l’altra, e con almeno un altro paio pronte in tasca, già fredde a fare scorta; l’alcool come il potere, era la pantomima cui affidare la certezza di un rifugio.

Quella sera attraversammo la città a velocità, parcheggiammo dietro Piazza Barberini e ritornammo giù, lungo la strada fino a Villa Borghese.

Cominciò a piovere e ci infilammo nel primo bar a vista, per poi correre, correre, al di là della recinzione, fino a trovare riparo sotto il portico, in mezzo al colonnato bianco, vicino alla Grotta dei Vini. Ci ispirava quel posto – una volta –, tanto ci sembrava poesia il nome e noi a terra contro il tufo, sembianti di mimi d’altro tempo.

Amavamo e al tempo stesso fuggivamo dalle luci del Natale, per le strade ce ne rimanevamo distaccati. Preferivamo il buio fitto sotto i pini, con le civette a intonare indimenticabili notturni e qualche conoscente di marchetta sempre ansioso di scambiare due parole.

Quella sera era come ce ne sono state tante: noi tre, la birra, la notte.

Poco prima eravamo lì a raccontarci di un amico, di quand’ero finita lunga distesa a terra, svenuta e livida perché davvero troppo stanca per restare ancora sveglia; eravamo lì a ricordarci, diceva Alex, di quando Max aveva dimenticato l’x-name per accedere all’x-place dell’anno, alla festa, al trip da sballo che avrebbe dovuto fare storia.

Un attimo eravamo lì e ridevamo, perdevamo il senso del tempo.

Un attimo noi, seduti a terra, complici e legati, completamente storditi nell’incoscienza di un immaginario stato di grazia, fino a precipitare dentro un incubo senza rendercene conto.

Un incubo.

All’arrivo di quei cinque fottutissimi bastardi, spuntati all’improvviso da un punto imprecisato, in mezzo agli alberi, accerchiandoci, chissà da quanto tempo nascosti e a osservare, già con il sogghigno della rissa che andàvano cercando.

- Ahhh…, ma che bel trio…, due frocetti impotenti che tentano di farselo venire duro mentre una troietta gliela fa vedere…

Ahahahahah…

E noi, che nemmeno un passo avevamo udito, nell’oblio in cui eravamo, persi in quella notte sbronza noi, noi fummo così maledettamente deboli e avventati.

Noi eravamo disperati, inchiodati tra la furia della lotta e l’angoscia di vederci barcollare e crollare, uno a uno, e senza riuscire a fare niente.

Una sera come tante, eppure quello che è seguito ancòra lascia traccia nella carne dilatata contro voglia,

nella bocca seviziata

abbrancata

forzata,

nella volontà mai espressa

straziata

violentata,

ancora oggi – sì cazzo, ancòra oggi - con lo stessa insofferente ripugnanza.

Una sera come un’altra, il freddo, l’alcool, noi tre, ma con la testa e il corpo all’ennesima impotenza. Impossibilitati nonostante la rabbia e tutta la violenza che reagiva, nonostante lo scalciare, i pugni i graffi lo scappare. Noi fummo costretti a guardare.

Cazzo, a guardarci.

Incapaci di urlare. NOOO!

NOOO!

Vaffancuuulo,

figlio di puttaaana,

NOOO!

NO!

Fino al pianto.




Certe parole sono… cooosa?

Impossibili da proseguire se il fondo ancòra non si vede.





P.S.

Sono proprio così certe notti, “incubi…

… al risveglio”.