31 maggio 2005

ESEGESI di un VIAGGIO


(A Michael)


LA DISTANZA HA IL SUO MAGNETISMO – prima parte –

Sei solo una stupida! È notte fonda e tu insisti per partire adesso. E non trovi di meglio che chiedere se qualcuno possa portarti. Non puoi aspettare domani mattina, povera cretina. Dove credi di essere? Sei a Marrakech e sei sola, che Allah ti faccia pietra la sabbia su cui poggi il piede, qui ti direbbero.

Continuo a percorrere avanti e indietro la hall, tutta specchi e tappeti rossi, dell’Imperial Holiday Hotel e a cercare di trovare risposta ad una domanda che comincia ad assillarmi - Où est Monsieur Michael M.? - Non voglio credere di essere giunta fin qui, e di non trovare indicazione alcuna su dove possa incontrarti, anche se certo il volo è arrivato con tre ore di ritardo e l’appuntamento è saltato.

Lo sai, lui non aspetta. Sei una stupida. Avresti dovuto chiamarlo da Casablanca, durante lo scalo, e invece te ne sei stata seduta in attesa a scrivere le tue insulse righe di poesia. Per tua colpa, di sicuro, avrà pensato tempo scaduto e se ne è andato.

Tutti sembrano starmi a guardare, come se fossi un animale raro trovato per caso su una terra di loro proprietà. Mi vedo continuamente osservata e comincio a sentirmi a disagio cosicché mi siedo sulla poltroncina all’ingresso incrociando le braccia e le gambe. Distolgo lo sguardo da chiunque, ma finisco per incontrare i miei occhi allo specchio che, accanto, mi riflette stanca e spaesata.

- mselkhīr, ’afak īla fin kein Valentina P.? - un uomo è entrato dicendo qualcosa, certamente ha pronunciato il mio nome. Mi volto, lo guardo, e spero mi porti notizie. E’ già passata più di un’ora, la valigia mi sta davanti ancora tutta imballata come il nodo che mi attanaglia la gola dal momento in cui sono entrata in albergo, insieme al profumo al coriandolo rimasto dalla cena nell’aria.

- hīya! hīya! - l’usciere alla reception concitato gli risponde, facendo segno nella mia direzione.

Lui indossa una semplice mise, bianca e blu, e dei sandali aperti, come tutti qui, e così sembra incredibilmente “alla mano”. Venendomi incontro, - ensha’llāh - esclama e sorride.

- Bonsoir Madame. Comment allez-vous? -

- Bien, merci. Dîtes-moi s’il vous plaît où est Monsieur Michael M.? –

- Il est laissé pour Taroudannt, ce soir -.

- Non! Pourquoi? - mi sento male, e inizia girarmi la testa. Non è possibile, penso.

Sì che lo è, e lo sai. Il cobra sputa il suo veleno anche da lontano e così tu stai qui immobile e aspetti. Ritardando hai sbagliato la tua mossa, ed ora il suo veleno ti scorre nelle vene come il fuoco.

- Où est? Je veux aller à Taroudannt! -

- Demain -.

- Quand? Non demain. Maintenant! S’il vous plaît... -

Accigliato esita ma poi annuisce: - ensha’llāh, ensha’llāh - ripete. Prende la valigia e la carica su un’auto, è tanto vecchia che sono convinta d’averla vista forse una volta in un film in bianco e nero, chissà se reggerà il viaggio, penso, o ci lascerà a terra chissà dove. Mi racconta che l’hai istruito di d’incontrarmi in albergo, e, sotto due baffetti perfetti, mi schernisce e commenta che non eri per niente contento quando sei partito.

Il viaggio è lento, ma la carretta sembra abituata alla strada. A quell’ora di notte ancora si vedono uomini andare sulle loro biciclette sfasciate, con i loro carichi insensati e fuori misura per il mezzo che adoperano. Mi chiedo come si mantengano in equilibrio o se talora cadano a terra e si ritrovino a raccogliere tutto. Ancora ci sono uomini, solo uomini, spesso in gruppo, nei bar dei villaggi che incontriamo lungo la strada.

Di nuovo mi sento osservata, Reduan, così ha detto di chiamarsi, a volte ho la sensazione che mi spii con la coda dell’occhio dallo specchietto retrovisore. Ho preferito sedermi di dietro, semmai fossi crollata dal sonno.

Riposa bambina, perché sai quello che ti aspetta, non sarà quest’assenza di luna che impedirà al lupo di ululare al suo branco che la preda è vicina.

Rabbrividisco ma non è il freddo, il vento soffia caldo dal deserto, è che mi sento stranamente eccitata: ogni cosa intorno sembra lasciarmi addosso una traccia, indelebile.

Io e Reduan ormai ci diamo del tu, e sono ormai certa che è affascinato da questa fretta che mi conduce da te, l’approva e non concepisce come tu abbia potuto lasciarmi da sola. Mi dice che sono bella, molto bella, e mi chiede di noi, s’informa: sei solo un amico? viviamo insieme a Roma? la prossima volta porteremo i bambini? Quello che non sa, è che a volte mi pongo le stesse domande.

Sono scoccate da poco le tre, quando Reduan decide di fermare l’auto, è stanco, la strada è tortuosa e continuerà ad inerpicarsi sui monti dell’Alto Atlante. L’aria qui a Ouirgane è fresca, vi soffia il vento come l’ansia d’un cambiamento, impalpabile ma persistente.

Sarà una famiglia sua amica ad ospitarci, nel villaggio vicino di Ijoukak, per la mia prima notte in una kasbah: troppo stanca per oppormi, lo seguo. E lui ne è così felice, che mi accompagna ridendo per tutto il tempo finché non arriviamo: c’è un qualche motivo d’orgoglio nel suo riso, forse dovuto alla fiducia che vi ripongo.

O forse perché sei una donna soltanto e questo basta da sé, non pensi? Qui il mare forse non l’hanno mai visto e le perle sono già così rare.

Reduan svolta per una stradina che conduce all’interno, sembra un sentiero di montagna. Tutto è quasi completamente oscurato, il manto stellato avvolge ogni cosa. Mi sento inghiottire dal buio.

E finalmente arriviamo dove mi raccomanda a una donna, Neggafa, affinché io mi senta a mio agio insieme a dieci altre persone, dove il pavimento è terra battuta, le mura di paglia e di fango, dove l’acqua è raccolta in otri di coccio e si scalda ancora sul fuoco. Neggafa ha un’età che non definisco, ma il suo sguardo sospettoso mi è evidente sin da quando sono entrata: chissà perché crede che io sia qui, se Reduan le ha spiegato o se semplicemente si è ritrovata ad UBBIDIRE.

Siamo così diverse, almeno in apparenza, ed io non posso evitare di sentirmi un’intrusa, e lei non può sapere cosa c’è oltre quello che vede. I miei jeans e il mio dolcevita sottile inevitabilmente stonano con la sua pesante jellaba verde rame, il colore della terra che ama, la sua fame e la sua sete.

Non comunichiamo molto, solo qualche gesto e solo se necessario: lei è schiva, silenziosa. Sta preparando ogni cosa affinché io trascorra la notte lì, con loro. In un angolo allestisce un giaciglio, di stoffa ravvolta, lontano dall’ingresso tendato che dà sulla stanza di fianco, l’unica altra stanza che c’è, la stanza che riunisce gli uomini. Ogni movimento è il passo preciso di un rito, chissà quante volte l’avrà ripetuto. Vorrei aiutarla, rassicurarla, ma il suo sguardo è un attacco muto, è un divieto a usurpare il suo regno, un obbligo a restare al mio posto perché non sono che un ospite e per una notte soltanto: ed è vero.

Sei davvero una serpe velenosa, come una viscida biscia ti sei intrufolata minando la sicurezza di chi ti sta intorno. Una serpe! Una viscida creatura!

Tutto è pronto, Neggafa mi fa cenno di sdraiarmi, accosta bene le tende che ci separano dagli uomini, chiude la lampada ad olio e lascia che il sonno le dia il meritato riposo. Così come sto mi corico nel mio groviglio di lana e cotone, nella mia piccola cuccia, non ho il coraggio di spogliarmi, mi raggomitolo e dormo.

Allahu akbar, Allahu akbar, Ashhadu an la ilah ila Allah, Ashhadu an Mohammed rasul Allah, Haya ala as-sala, Haya ala as-sala. Melodioso e surreale, mi sveglia il richiamo alla preghiera del muezzin, dal vicino minareto dell’antica moschea di Tin Mal. E’ un’armonia eterea di suoni, un canto immenso di gioia che invita all’ascolto, a restare in silenzio o quantomeno a pensare.

Neggafa e le altre non ci sono, provo un certo sollievo, una marmitta sul fuoco già ribolle e impregna l’aria languendo i miei sensi: la fame comincia a farsi sentire.

- Bonjour Madame - mi sento dire alle spalle da una vocina minuta.

- Bonjour - rispondo, ad una ragazzina che mi sorride da un angolo. E’Amina, fa alcuni passetti veloci nella mia direzione e mi prende per mano. E’ terribilmente scarmigliata e incredibilmente sorridente. Una ciocca ribelle, nera e impolverata, le ricade sul viso coprendole il nero infinito degli occhi, è un impulso e gliela sistemo dolcemente dietro un orecchio. Il cuore batte forte, il suo sorriso mi contagia: il contatto è un’emozione, è la prima persona che sfioro da quando sono arrivata in Marocco.

Insieme andiamo verso un tavolo basso dove una dolce frittella mi aspetta, la calda beghrir, e due ciotole dense, una riccioluta di burro e l’altra profumata di miele, che forse è di timo. Io e Amina mangiamo, ogni tanto la imbocco e lei imbocca me, giochiamo a imbrattarci col miele, ridiamo, ci abbracciamo. Ora sono felice.

Il vento non porta solo pioggia, rinfresca a volte anche il sole.

- ssalamū ‘lekum, Reduan - all’uscita il mio saluto è solare.

- wa ‘lekum as-salam - Reduan mi risponde compiaciuto.

Qualche preparativo e siamo di nuovo pronti a partire. Lascio un compenso per l’ospitalità ricevuta forse un po’ a malincuore, ma l’impagabile sorriso di Amina bilancia bene il mio conto.

Ci avviamo sulla strada per Taroudannt, dove le magnifiche vallate del Tizi n’Test mozzano davvero il fiato. Il verde è talmente rigoglioso che dimentico l’intorpidimento alla schiena e l’amara sensazione rimastami dalla notte precedente. Una leggera foschia obnubila l’orizzonte.

Qui su, così in alto, fra questi monti sconosciuti, mi sento così lontana da te, non sono riuscita neanche a mettermi in contatto, eppure ti sto venendo incontro: il vento soffia in progressivo aumento, e, tuttavia, il caldo è intenso.

Non so che darei per alleggerirmi un po’, e magari per farmi una doccia. Non riesco a credere che mi presenterò a te in queste condizioni, tu odi il disordine ed io mi sento completamente fuori posto.

Reduan continua a guidare. Credo sia di queste parti: oggi ha velato il volto, rispetta il conservatorismo che si respira nell’aria. Le poche donne che vedo lavorano ai campi, raccolgono erba medica o cereali. Quando l’auto vi passa accanto, si voltano o coprono il viso. Molte trasportano enormi fascine, sembra di sentirne il peso: la loro fatica si legge nel passo.

Iniziamo a scendere a valle quando il sole è già alto.

Reduan ha indossato gli occhiali da sole, ora si cela al controllo che ogni tanto gli lancio: non so mai se mi guarda, ma ne sono convinta ed è più insistente di prima. Quella signorile reverenza che caratterizzava i nostri dialoghi, il nostro interagire, sembra non esserci mai stata: ora sento l’odore del maschio ed ho paura dell’uomo.

Ti sei costretta al silenzio, hai taciuto il caldo e la fame. Ora sei smaniosa come un insetto intrappolato in un barattolo di vetro, quest’auto vecchia che ti sigilla dentro.

Sono le cinque quando entriamo a Taroudannt. Nell’aria il profumo intenso di zagare mi rincuora, mi stordisce: è un altro mondo. Superiamo le mura rosa merlettate, ci addentriamo a piedi tra i souq, ci avviciniamo passo passo e non mi sembra vero di essere arrivata a questo portoncino di metallo blu, oltre il quale ci sarai tu.

Reduan ha la chiave, apre.

Sei assalita dal dubbio: perché ha la chiave? Stupida! Pazza! Ma cosa hai fatto? Dove diavolo sei? L’aria spesso nasconde tra i profumi infami veleni.



L’OCCHIO DELLA MENTE – parte seconda –

La stanza che ci accoglie è desolatamente spoglia: un vecchio tavolo di plastica e ferro, un lavello di ceramica dura ingiallito dal calcare, dallo sporco, e piatti su piatti accatastati, chissà da quanto in attesa.

In attesa? In attesa di cosa?, è un attimo fulmineo e lo penso.

Oddio ti sei rovinata. Sei un’imbecille! Una cretina! In attesa di cosa? Di una donna che altro, una serva, una schiava. Oddio…

I miei sensi di colpo precipitano in un silenzio di suoni attutiti mentre la nausea veloce comincia a inseguirmi.

La mente è un cavallo pazzo e nella corsa è difficile tirare le briglie.

Forse passa qualche attimo quando m’accorgo di stare lunga distesa al pavimento, con le gambe leggermente sollevate a risalire il fiume del sangue e della vita; quando mi riprendo ancora martella dentro il dubbio su dove mi trovi, così decido di fingermi svenuta per studiare un po’ la situazione. Poiché nel buio e nel silenzio c’è sempre il rifugio solitario della mia mente bene accesa, c’è il mio sesto senso. Resto immobile mentre il cuore pulsa, s’agita d’ansia e esitazione, mentre i minuti corrono durante la mia fuga d’incoscienza dietro a un pensiero che scioglie soluzioni.

Il respiro che sento nella stanza mi convinco, voglio, che sia il tuo, ed è un respiro che sembra d’attesa con parole dentro mute di preoccupazione e di sdegno.

Più che di te stessa è di lui che ti fidi, e nell’oscurità ora lo cerchi per paura e per conforto nascondendo il dubbio e delineando il desiderio tra le ombre: è l’ incontro al buio del tuo pensiero e del suo volto.

Sto pensando di alzarmi e di correre veloce verso l’uscita, di nascondermi da qualche parte fino al momento in cui non troverò un modo per tornare a Marrakech. Ci sto pensando e contemporaneamente mi ripeto: - questa non è che una paranoia -, tu ci sei davvero qui al di là dei miei occhi chiusi. E sei tu che lentamente poggi le mie gambe al suolo in un’impercettibile discesa, con accortezza. Sei tu che t’allontani di qualche passo che sento scricchiolare sul pavimento e stridere, crepitare sul terriccio e sulle briciole, e improvviso poi confondersi con un rumore d’acqua che scorre, che scroscia a ricordare forza e a farmi brivido col suo inghiottire svelto del lavello. Sei tu che apri la porta o forse la finestra profumando l’aria di zagare ed è tua la traccia che perdo dentro il tumulto che ora arriva dai souq, tra il picchiare del martello sul cuoio di babouches, sull’argento caldo di sciabole e teiere, e lo sfrigolare intenso di carne e di verdure.

Ti sta disorientando! Non penserai di riuscire ad ingannarlo? Certo che lo sa della tua recita e dei tuoi sensi bene all’erta. La sua mente ha la vista d’un falco, poco contano gli altri sensi nella caccia.

Ad occhi chiusi, nel rumore e tra gli odori, coi sensi protesi come sonde ancora ti cerco. Anche l’aria sembra avere un peso adesso, un calore, ora che la mia pelle è tesa e ascolta. Immagino, centimetro dopo centimetro, il mio corpo a registrare variazioni, sottili impulsi e nascoste percezioni. Tu sei qui per me adesso. Tu muovi e la mia pelle, sentinella alla mia voglia, in un sollievo d’ombra ti ritrova schiudendo le mie labbra come a dire: - vieni, avvicinati, ti prego vieni e aprila, scucila a fondo questa fessura, solcane il taglio e fendila, squarciane il silenzio di sospiri.

E tu certo rispondi alla mia bocca, lasci colare lungo il taglio la vita in gocce d’acqua, affinché il mio respiro involontario si tradisca inabissandosi più a fondo, sollevando un poco il seno, cosicché mi sveli costringendomi ad aprire gli occhi.

Eppure c’è Reduan a me vicino, siede gambe incrociate al pavimento. Mi guarda e mi sorride mentre tiene pregno d’acqua un tessuto nella mano. Rivederlo è strano, quasi mi meraviglio.

E tu, Michael, così unico e molteplice, coerente fino all’ostinazione, mutevole come il metallo vivo, sei qui comunque per davvero. Stai ritto contro lo stipite della porta ed hai evidente una contrattura di dubbio striata sulla fronte.

- Ti sei preoccupato? - A rispondermi il tuo sorrisetto obliquo come un rimprovero dolce.

- Avvicinati! - dici ed io mi alzo. Occhi negli occhi come nel cuore d’un ciclone guardarti è perdermi. Una bellezza assassina, con dei muscoli tesi in fremito sotto una pelle scura, che mi fonde il cuore e la voglia bagnandomi all’istante. Stai immobile e aspetti, mi guardi, mi scruti, mi cerchi il fondo dei pensieri dietro la giada degli occhi, sento che scopri le vene tenere dei miei timori: perché mi hai chiesto di raggiungerti fin qui in Marocco? Sono queste le parole che penso da ore, ma che ancora restano mute.

Ormai ti sono addosso, a poco più d’un passo, e mi diverte, mi conquista la tenacia del ruolo che mantieni senza mai contraddirti. Come una gatta, lenta e silenziosa, quasi t’annuso mentre unisco il tuo respiro al mio, mentre poggiata mani alla parete ti chiudo in una morsa che non sfiora. Non c’è contatto, se non quello della tua fronte con la mia, dove cullo i miei pensieri dentro i tuoi.

Sorridi, e mi sfidi tenendo le mani ferme lungo i fianchi, mi vuoi in un gioco che seduca: senza rispondere al richiamo che ti supplico con gli occhi, senza toccarmi, vuoi prima che addolcisca la tua testarda resistenza, che la scopra e la monti d’instancabili promesse fino a romperla, a scioglierla in una risposta alla mia supplica.

Allora insisto, e accorcio ancora un poco la distanza ripetendo i gesti di una danza che hai già visto, che hai sentito più d’una volta salirti dentro e farti furia. Una colata di desiderio mi guida determinata alla mia meta. Mi piego in ginocchio, e mentre scendo sinuosa ti guardo senza lasciare la presa. La mia bocca è taglio rosso di carne, un dito adesso ne solca la ferita, l’apre e la squarcia scavandola dentro, scoprendone l’umido calore. Il dito sa, è esperto, gioca, lotta con la lingua, ne percorre il tronco e vi scivola fino al fondo soffocando il mio respiro, violentando la mia gola. Poi, esce e mi lascia vuota, va a lisciare i contorni d’una fenditura che ora cola amore e saliva.

Sei una donna sottomessa ma decisa di fronte a un uomo, parato davanti, dominatore.

Il dito è solerte, ha giudizio nel ripetere da specchio il ricordo della mia bocca quando è piena, quando è ghermita dai guizzi impazienti d’una testa vermiglia che luccica, liscia come il velluto, salata che asseta. Il dito riesce e rientra, allarga i bordi già spalancati alle labbra, le assedia, le supera, va oltre la corona nascosta dei denti che a volte ne contrasta il dominio con piccoli morsi, con morbide chiuse serrate alla base per trattenerne l’apice al fondo.

Così, come in un film che ricomincia a non finire, spingo in una danza di lascivia che aspetta la tua pioggia, esploro tra i ricordi trattenuti d’una storia così che mi rivivi nella mente adesso come allora: nelle forme e nel sapore, nell’enfasi che intensa gonfia il fiato. Adesso, seppure non ti sfioro. E quindi, poi, voluttuosa mi rialzo, con inebriata lentezza, stretta a te da un laccio d’occhi, e sfrego e struscio laddove gli abiti nascondono i primi picchi della voglia, dove il tessuto sfibra sotto la tensione che lo solca, quando la carne si fa punta dura e tesa. M’invento a mimare incontri di vissuto come se non fosse solo aria che ora smuovo per sfiorarti senza averti per davvero, perché l’aria - se uno vuole - certi vuoti sa riempire e in spirale di risucchio si sa fare.

E ancora ondeggio tra il ricordo e questo mimo come un fior di loto a pelo d’acqua quando m’afferri dove la schiena inarca le mie reni, e sporge in avanti il pube premendoti contro. Sostieni il ritmo al mio respiro mentre comprimi tensione e desiderio dove più la vita stringe il giro, e la mia voglia palpita ora come un cuore impazzito, ti cerca fra le gambe smaniosa come la bocca d’un neonato.

Il tuo fiato m’incendia il collo, come il vento risale lento lungo la brughiera dei capelli fin sopra le onde umide delle labbra: mi baci ed il mio volo è tremante come quello d’uccello travolto da un uragano. Frughi e frangi il raso d’ogni piega della bocca, la percuoti di stiletto con la lingua per violenza, così che senta… bastardo!... che senta, insieme alla saliva che mi monti, il fiele amaro del sesso d’altra donna mentre tracima dagli angoli come sangue da una ferita aperta.

Infame, amore mio, bastoni il mio cuore randagio appena trova il suo rifugio, lo catturi e lo tormenti in una morsa di deliquio e di dolore. E’ un attimo di livida consapevolezza ma il pensiero è veloce e tira il freno, il corpo si tende rigido, tanto è che ti strappi dal nostro bacio stordendomi con un riflusso d’amore e d’odio, che scivola dal mento lungo il collo fino al solco dove il cuore ora lotta prigioniero.

Ma è un attimo, ancora una volta è solo un attimo, e l’anima già mi sfugge tra le gambe: la mia rabbia lìquefa dentro un desiderio ormai sleale. M’infiamma il fuoco delle tue labbra, m’accende pericoloso alla tua voglia; così scrutandoti, più o meno controllata, un po’ ironica, ancora stretta a te, ti chiedo: - lei chi è?

E tu con incredibile candore mi rispondi divertito: - Naima, la incontrerai stasera. Ti piacerà.

- Mi piacerà? - ripeto, non incredula, ma ammirata dalla tua faccia tosta. Fingo d’essere scettica perché la gelosia mi rende non poco puntigliosa.

- Naima è l’essenza stessa del vino. Sì, ti piacerà! - rispondi, scuotendo leggermente la testa come a sottolineare una certezza, e, senza nascondere una sottile nota di sarcasmo, aggiungi: - ti saprà inebriare, sono certo che poi non potrai più farne a meno.

Un silenzio che non vorrei segue inevitabile, la gelosia mi gela: è il taglio del nostro stesso legame e ne è la cicatrice che rimargina sotto le lingue che leccano le nostre continue ferite, per farci poi proseguire complici sempre come due gatti siamesi.

Mi guardi più a fondo, mi sorridi, e riprendi a baciarmi ad ondate lente come a placare il mare che mi si agita dentro, avvolgendomi dolce, spianando la lingua con metodo a riempirmi la bocca ed ogni altro senso, senza lasciare altro spazio che a questo: non c’è più nessun pensiero, dopo l’ansia di dovermi aprire resta solo la gioia incomparabile d’offrirmi.

La vostra vita è come una scala a chiocciola, una spirale vorticosa a strati. Ogni strato è un mantice di misteriosa perversione, che in crescendo diventa smania, un veleno d’estasi che intossica.



DEL PARADISO PRIMA ARRIVA IL PROFUMO – terza parte –

E’ inutile aggiungere altro, sto pensando. A quando risalgono le mie ultime proteste o le mie ultime ritirate di rifiuto? Sto ridendo di me, sono davvero bugiarda con me stessa: io amo la nostra vita pagana, l’idolatria del nostro amore promiscuo.

Tuttavia, ancora eccitata dal contatto e un poco ansiosa per la serata che mi aspetta, fatico a seguirti all’esterno, a lasciare queste pareti scrostate e tristi che mi hanno vista fiorire come d’inverno la chioma inaridita d’un albero può cogliere sotto di sé un fiore raro sbocciare tra le sue vecchie radici.

Reduan fuori ci attende, poggiato spalle alla sua auto chiacchiera amichevolmente con un uomo: di nuovo mi sorprendo nel vederlo, non ricordo il momento in cui ci ha lasciato soli in quella stanza e ci è passato accanto, magari sfiorandoci, per attraversare la porta dove mi strusciavo felina come la coda d’un gatto. Mentre ci avviciniamo ci guarda, o meglio è te che guarda poiché io ora sembro non essere altro che la sagoma della tua ombra, ti saluta come un fratello allargando le braccia in evidente segno d’affetto, ed è quasi reverenziale il suo tono mentre gli porgi i convenuti 500 dirham per avermi portata fin qua. Ma non m’importa, lo ignoro, sono troppo presa da te e dalla mia prospettiva che decisamente ora cambia. Procedo sicura un paio di passi dietro di te, ad una distanza che è specchio alla forma del nostro rapporto di ruoli, io sub e tu Dom: la manifestazione immediata della nostra fiducia, mia nel seguirti e tua nel non volgerti indietro.

Pochi passi di certa determinazione quasi a lasciare dietro un’impronta che marchi il cammino, che sottoscriva da firma la nostra decisione già presa. Pochi passi fino alla mia nuova auto che aspetta, la tua Freelander, una jeep, che a prima vista già ostenta sfacciata la sua grandezza, la sua potenza arrogante da spirito libero, non regge certo il confronto col ferrovecchio della mia scorsa notte di viaggio e sembra un affronto verso l’umile orgoglio che qui intorno traspare d’ovunque.

Caricato il bagaglio, il tragitto è breve e si consuma tra sguardi e silenzi senza nessun altro accenno alla misteriosa Naima. Qualche chilometro appena al di fuori delle mura della città e s’intravede poco prima del tramonto il nostro Hotel La Gazelle d’Or.

- Dio che meraviglia, Michael! E’ stupendo, esagerato! - L’auto s’immette su un grande viale alberato da sottilissimi fusti, che s’alzano fitti lungo i fianchi di tutta la strada, e schizzano alti convergendo e intrecciandosi in arabeschi di luce che filtrano tra fogliola e fogliola, e screziano tra i rami con fulgido oro l’ultimo indaco d’un cielo di sera. E’ un arco moresco di viva natura che ci s’apre davanti e ci veicola magico nell’incanto di un’oasi un poco per volta.

- Guarda lassù! - sorridendo esclami con un cenno pronto della mano, indicando una palma altissima tra gli alberi che corrono oltre il mio finestrino. Incredibilmente stabile sulla cima mozza della pianta torreggia un nido di cicogne, dove fra immense ali bianche un becco lungo ed aranciato punta verso l’alto ed esulta in una spirale di note al violoncello, che per noi è come un segnale profondo di benvenuto.

Così arriviamo, al varco di quello che appare un vero paradiso, dove dolcissima l’essenza di zagare permea e riempie l’aria allargando il respiro, affonda morbida tra i sensi frastornandoli, mentre le note leggiadre delle rose damascene accarezzano lievi, e delicate rimangono in superficie alleviando la pelle dalla calura del giorno. Innumerevoli lucernari d’elegante ferro battuto, nel cortile interno all’entrata, con la loro tenue fiammella sembrano voler accompagnare il crepuscolo rosa ad indossare l’abito stellato della sera, e come lucciole di terra promessa attirano lungo gli odorosi vialetti, tra i soffici tappeti d’erba distesa, attraverso le zampillanti fontane dove fra le piccole creste dell’acqua riposano stanchi i petali sparsi che hanno danzato col vento.

Mi stai guardando, lo so, mi osservi senza perdere alcun lampo di stupore che m’abbacina gli occhi. Ti delizi e m’innamori con quel tuo sorriso soddisfatto: ora è come se fossi una principessa, la dea che veneri ed ami, camminiamo mano nella mano come due ali della stessa farfalla, senza più differenza di ruolo, nell’equilibrio perfetto delle nostre emozioni.

E mi conduci così verso la nostra suite, mentre ringrazio Dio di questo amore sconfinato che ci trasporta e ci lascia liberi di camminare sull’acqua.

- Mia regina, mia rosa, questo sarà il tuo regno per qualche giorno. Ti piace?

Trastullandomi con la punta delle dita sulla superficie d’ogni pezzo del mobilio, lisciando il rosso damascato del divano e l’arancio solare dei cuscini, volteggio da una parte all’altra del mio nido d’amore, dal velluto delle rose fresche nei vasi alla buccia rugosa e lucida della cesta d’arance. - Mi piace? E’… è sublime…, è perfetto, ogni dettaglio mi fa impazzire. Tu mi fai impazzire! - E tu ridi, mentre con consapevole finta rassegnazione - lo so, lo so - ripeti.

- Mia dolce bambolina goditelo questo lusso, fissatelo indelebile nella mente - aggiungi perentorio da maestro di scuola come d’avvertimento. Io ti guardo obliqua in segno che ho capito: so che vuoi sia questo un dono, che mi raggiunga nel ricordo a confortarmi e a rassicurarmi nel momento stesso in cui mi verrà a mancare, quando scenderà il silenzio tra di noi.

- Adesso vado. Sarò fuori questa porta fra due ore esatte. Andremo a cena. Incontrerai Naima. Indossa qualcosa che sia leggero. E resta scalza! - Aggrotti serio la fronte a domandare se ho capito.

Ti rispondo solo con un cenno d’assenso perché l’ansia dell’attesa di nuovo mi contrae lo stomaco. Tu ammicchi veloce ed esci.

Sono sola e nella luce mielata del mio bellissimo cottage sento che ho bisogno di sollievo, di tranquillizzarmi. Le mie mani così iniziano a spogliarmi, percorrono il bordo dei jeans lungo le cuciture in rilievo, punto per punto seguono di polpastrello e poi d’unghia i centimetri della mia vita, appena sotto l’orlo chiaro del dolcevita leggero. Ho bisogno di ritrovarmi. Cerco con gli occhi uno specchio, lo trovo, c’è una lunga cornice di ferro che parte dal pavimento davanti ad un pesante tappeto cremisi in stile Rabat, mi ci avvicino e guardandomi a lungo quasi interrogativa, già maliziosa, mi dico: che gioco vuoi fare Vale? E le dita scendono, scivolano intrecciate sull’apertura dei jeans: passano dal liscio bottone che stringe, alla falda sovrapposta dello stretto tessuto che nasconde la lampo. La scorrono, la risalgono, ne strusciano i suoi piccoli denti serrati insinuandone il taglio, premendovi contro a sentire la breve strada di sottile metallo, verticale, ripida lungo il ventre fin poco sopra la benedetta creatura che da oggi pomeriggio smania senza darmi una tregua. Con la mano a conchiglia allora la raccolgo tutta come un passerotto caduto dal nido, la cullo dolcemente, voglio placarne i singhiozzi, e mentre la mia mente mi istiga a premere in alto dove la mia bella bambina raggiunge la sua massima altezza così da segnarne subito il sospirato arrivo, la mia mano invece stringe la sua bocca impertinente per farla tacere, la schiaffeggia sulla sua testa un poco ricciuta per temprarne il carattere, per farla docile cucciola che ora obbedisca a me, e a me soltanto. Almeno per ora.

Mi guardo allo specchio, - devi riprenderti, sei ancora vestita ed è tardi -, mi dico.

- Che scema sei -, penso e rido ebbra di me.

Cadono i jeans, e il rumore è sordo, ancora più attutito dal tappeto, senza indugiare stavolta seguono anche tutti gli altri indumenti. Ma gli occhi sono fissi ancora sulla donna che dallo specchio fedelmente m’eguaglia come fosse una gemella, con lei sono sempre più critica, forse anche più di te, a volte sono quasi spietata, guai se non mi riflettesse alla perfezione. Lo sguardo le sale addosso, lentamente, severo, inizia dalle dita affusolate dei piedi dove le unghie laccate di bianco risaltano la sua pelle già ambrata da qualche giornata di sole, e poi continua verso l’alto a scivolarle sopra come sulla seta lucida e liscia, attorniandone le caviglie sottili, la carne slanciata dove i muscoli guizzano in richiamo come a dire: - vieni, sali, dai!... monta più su, trova il perno intorno a cui oscilla questa forbice di gambe -. E lo sguardo esegue, s’appunta fisso in mezzo alle cosce a saturarne d’occhi il taglio che spacca nitido il centro, a lasciarsi andare innamorato sul tratto a carboncino del vello… - hm, però, questo pelo capriccioso ha bisogno di un’immediata sfoltita - le dico contrariata, spettinando i contorni della sua piccola striscia di pelliccia. E poi lascio che il mio sguardo prosegua, che la monti mentre la donna ruota e piega su se stessa volgendo le spalle allo specchio, mentre torcendo un poco il collo per vedersi, i miei occhi le corrono incontro lungo il solco fino al roseo sole che m’offre nascondendo il resto del percorso. E qui dovrei trattenermi in verità, perché di questo astro vorrei sondarne l’elasticità e romperne subito le inutili resistenze, ma la risparmio, almeno io, tanto so che un po’ di sofferenza più tardi non le spiace. Così avanzo con lo sguardo, di nuovo, mentre lei volta intuendo ciò che voglio, e m’arrampico a ragno tessendole intorno una tela di lascivia, che la risale insieme alla lunga seta nera dei capelli dalla curva dolce della schiena a spirale sul suo ventre, dove piccolo un geco tatuato s’aggira intorno all’ombelico come fosse la sua tana. Qui è bellissima, questo vezzo animale mi seduce, vorrei restare a guardarne l’effetto mentre si muove, ma questo sguardo che la indaga deve seguitare, deve arrivare fin sopra le punte tese del seno che s’ergono già adesso in preghiera di suzione e solo lì poi perdere la vista, stregato fra due lune.

Sorrido infine d’intesa all’altra donna nello specchio, me stessa, e dirigendomi sotto la pioggia tiepida della doccia in un mosaico verde e blu di maioliche a muro mi dico: - sarai tu la regina questa sera!

Non ci sarà nessun profumo per te amore mio, sarò nuda d’ogni odore che non sia quello della mia stessa pelle, della mia voglia che condensa come rugiada al primo sole non appena sei vicino. Nuda come una tela bianca in attesa del mio artista di sensi, così che mi colori col gusto del momento. E bianco è infatti il lino scelto che mi veste, fin quasi alle caviglie, in discesa dolce lungo i fianchi come disegno di nuvola nelle forme con l’arrivo del vento, ad ogni movimento. E poi una striscia di stoffa, anch’essa bianca, sottile, tesa a bendare almeno l’apparenza della mia ferita rossa, la vera pecca al candore che ti offro, affinché mi mostri fra le gambe tempio ancora intatto da profanare novizio con lussuria.

Davvero sembro un angelo bianco, una crema di latte scremata da ogni mellifluo orpello, ad eccezione del sottile tratto di kajal a fare fessura nera lo sguardo come da specchio sull’anima, semmai una credessi di averne.

Pronta quindi, a piedi nudi t’aspetto, accucciata sul divano con le gambe ripiegate a ventaglio per trattenere il calore che sale, e non farlo sfociare ancor prima che si apra la porta e tu appaia.

Ed eccoti, puntuale da rimetterci l’orologio.

L’attesa a volte fa brutti scherzi, l’incontro degli occhi fa quasi male, ti sorrido ma non c’è ritorno. Il silenzio è già chiaro d’ora in poi sarà il mio fedele compagno e così solo furtivi gesti di sguardo daranno le risposte che cerco; come adesso, che a porta aperta con un cenno d’occhi rivolto all’esterno m’indichi la via da seguire. Ed io mi avvicino, ti passo accanto per uscire, sentendo il peso del tuo sguardo premermi contro come se spingesse, al punto che vacillo.

Ahi! Temo che qualcosa non sia come avresti voluto: - forse i capelli sciolti? O forse il bianco dell’abito per una purezza che stasera non apprezzi? -, lo penso ma non dico nulla. Anzi mi detesto per questo cedimento d’incertezza, giacché la mia forza, il mio potere di schiava affonda proprio le radici nella mia sicurezza. E do per questo un morso alle mie labbra, nella parte più interna e nascosta ma anche più vivida e delicata, per farmi male e recuperare il mio orgoglio, tanto è che poi ti lascio riempire col blu-nero degli occhi ogni mio passo, che pure rallento, finché non mi fermo in tua attesa nel piccolo portico.

A piedi nudi mi sovrasti e certo timore di te ce l’ho sempre, ma il mio sguardo ora è di sfida, riuscirai a battere la mia immaginazione, ad anticipare le mie paure e miei incubi, a dilatare ancora una volta il mio piacere fino a farmi perdere i sensi?

E’ il petrolio denso dei suoi occhi che ti arricchisce e ti avvelena la mente, che ti rende vischiosa nei pensieri quanto più acceso è il desiderio.



LA QUIETE DELLA GELOSIA - quarta parte -

Ci muoviamo sul viale lungo il filare dei cottages.

Sono curiosa d’incontrare Naima, la immagino una delle tue solite insidiose modelle scovata chissà dove, stavolta nel sobrio Marocco.

Ma è solo davanti alla porta della sua suite che realizzo davvero la vostra relazione: non bussi, apri, hai la chiave. Un gesto che basta a contrarre il ventre.

Capisci adesso? Il drago è stato domato, il fuoco è già drizzato in una direzione precisa.

Entriamo, ed ho l’odiosa sensazione di ritrovarmi in un nido di uova appena covato da un’altra.
L’interno è illuminato da una bionda luce che indora il salotto magrebino e riscalda una tavola già perfettamente imbandita, ma stranamente soltanto per due: - e la “cara” Naima? - mi chiedo, fra me e me, non senza sarcasmo.

- Meglio! - mi rispondo sovrappensiero tutt’altro che dispiaciuta, alzando però un po’ la voce.

- Come hai detto? - torvo incalzi.

Di rimando scuoto la testa assurdamente negando l’evidenza, ma il mio cuore inevitabilmente accelera, carica la sua prima tensione, lunga e fredda come una lama quando attraversa.

Tu resti immobile e mi fissi, mi stringi d’attesa il respiro, finché finalmente distogli lo sguardo, e porgi invece una mano come in gentile fare teatrale per sollecitarmi a prendere posto.

Il profumo delle spezie proveniente dalle tajines strugge sul serio la mia fame e porta fortunatamente i pensieri a dondolarsi sulle acque di lidi diversi. Adoro il sapore della carne d’agnello, l’esaltazione aromatica delle erbe e delle semenze esotiche, l’accostamento creativo che sprigiona note di fragranze nascoste: potrei dire che la mia scelta del cibo segretamente mi fa specchio.

- Attenta a non sporcarti - dici mentre sediamo a tavola l’una di fronte all’altro, e sembra nient’altro che un placido consiglio, in fondo la carne è immersa dentro un sugo denso di limone e zafferano che s’annuncia decisamente rischioso per il mio vestito bianco.

Io semplicemente annuisco, ma c’è fin troppa concentrazione nel mio atto di portare alla bocca ogni boccone, ogni singola volta. Non c’è dubbio, voglio palesemente compiacerti.

La serata prosegue tranquilla, come una barca che si culla tra onde di sguardi, ma tu, nella quiete, tu sei tempesta che accumula e abbruna la sua calma innaturale ed imposta prima che infuri. Non è assenza reale di dialogo, ma parole afone di privazione immobile a gonfiare l’esigersi estremo l’una dell’altro. Non si sente il bisogno di frasi a inseguirsi, lanciate a colmare il disagio fino a stordire per il chiasso stonato che fanno. Questo silenzio è una corda d’acciaio, suona allorquando la corda è così lunga da arrivare al suo massimo, così da vibrare intensamente più forte una volta fattasi infinitamente più tesa e sottile.

C’è solo lo scucchiaiare delle posate a tintinnare nell’aria come un orologio, a scandire l’attesa portata dopo portata.

Il dolce è un’invitante montagnola di cous cous all’uvetta e mandorle. - Hm… -, un secondo e pondero: - questa delizia rischia d’essermi più fatale di quanto possa apparire -, alla prima cucchiaiata si sfalda in una slavina di granelli dorati, - qualche chicco potrebbe rovinosamente cadere, rotolarmi addosso nel tragitto del piatto fino a quello della mia bocca.

Spontanea, poso il cucchiaio. Devo metterlo giù! E non assaggiare il dolce.

Certo! Sai già che se rischiassi asseconderesti le tue voglie, oseresti di proposito così da condurre lui dove non desideri altro che arrivi, a dargli un qualsiasi banale motivo per doverti riprendere, e meglio sai pure che mai vorresti fargli pensare di aver intenzionalmente tentato di guidarne le scelte.

Subito cerco il tuo sguardo sperando che approvi. E tu approvi, apprezzi l’insita indole della mia soggezione sin nelle piccole cose. M’accorgo dell’istintivo senso di potere animale che si risveglia e s’agita dentro a graffiarti.

I tuoi occhi sono semichiusi, lucide pieghe di decadente perversione, è come contemplare allo specchio le ombre della propria mente mentre avanzano la loro conquista, mentre solcano e scavano la naturale coscienza portando alla luce l’impeto oscuro delle zone morte.

E’ struggentemente dolce la follia della scarica vitale quando finita la salita poi dilaga. E’ un’onda che sommerge ogni altra possibile considerazione, è un piacere avulso dal resto che parte dal cervello e si diffonde chimico col sangue, ovunque nei sensi e sottovoce.

E’ vibrazione dell’attimo che altera la percezione, è urgenza di desiderio che rincorre a suggerirsi.
Ti alzi, e con un movimento lento del collo m’induci ad avvicinarmi e a seguirti verso la porta d’ingresso. Il tuo sguardo è un urlo, reclama la mia totale accondiscendenza.

Io m’avvicino sicura come offrendoti il cuore, anche se i miei piedi nudi muovono passi instabili. Sono ubriacati dal desiderio di ore, legati invisibilmente alle caviglie dai suoi filamenti, che rendono incerta la durata della mia resistenza.

E così ora sorridi, beffardo, tranciandomi il filo dei pensieri con gli occhi. Sai quale ansia mi sta montando dentro, che il desiderio maggiore è sentire la tua morsa che frena il mio istinto. Sai che ogni gesto per me è il tassello di un rito, un pezzetto di mosaico a definire le regole del gioco.

Sei distaccato, disinvolto, così controllato da esasperarmi all’incertezza. Sei così tu quando mi conduci ai margini di me stessa, svuotandomi del fiume dei luoghi comuni e delle apparenze, distillandomi dentro goccia a goccia la mia primordiale essenza. Sei così ed io, qui, ora, a pochi passi, a te legata da un guinzaglio d’intenti.

Ti seguo, uscendo, lungo i viali profumati dagli aranci, varcando scalza la lussuosa hall dell’albergo sotto lo sguardo incuriosito degli inservienti e della Signoria ipocrita, incravattata e rigida, nell’abito strainamidato per la serata mondana. Sento i loro occhi bruciarmi sotto i piedi come carboni ardenti mentre osservano l’assurda nudità del mio passo.

Solo l’oscurità, che fuori avvolge, fascia il mio cammino di una nuova sicurezza. Il buio lascia il tempo per un sorriso che non posso impedire: tornerei indietro, davanti alla reception, a ripercorrere quel tappeto bordeaux per trovare il coraggio di guardare fisso qualcuno e rovesciargli addosso il mio imbarazzo.

Ma io ti seguo ancora, e ancora, attraverso il cortile, sul selciato bianco, sui piccoli indocili ciottoli che s’insinuano tra piega e piega nell’incavo morbido della pianta dei piedi.

Camminare è tutt’altro che semplice, punte aguzze ripetutamente premono, pungono, graffiano e m’affaticano il respiro più di quanto voglia lasciare a vedere.

Ogni passo è un premio che m’avvicina a te.

Arrivati al distante parcheggio, come un lampo nella notte, il tuo accendere i fanali dell’auto illumina per un momento la strada, sbloccando automaticamente le cinque porte e il mio passo ansioso sulla ghiaia.

- Diavolo di un uomo, a volte mi dico che tu e Dio siete uguali. Troppo potere, troppa seduzione. Quale paradisi prometti affinché più d’una donna ti conceda la mercé del suo corpo, rinunci anche solo per poco alla dignità della propria persona. Con te io stessa sento la mia anima nient’altro che un volo libero fra i cieli raggiunti dal mio sesso -: il pensiero squarcia scardinando punti fermi, e convoglia tutta l’attenzione sulla donna col capo reclinato alla spalla, seduta sul sedile posteriore dell’auto.

Io m’avvicino e, sebbene sia assurdo dirlo, sento suonare una musica antica, un linguaggio d’emozione che oggi tra i più considero estinto.

Accendi i fari e la vedo. E’ bella Naima. I capelli le ricoprono il viso nella posa naturale della caduta su un lato della testa e, nella luce artificiale riflessa all’interno, le danno un bagliore di luna come quando è piena e velata da una leggera coltre di nubi.

Pare un angelo con le ali aperte, le braccia alzate a Pater Noster sono legate sui polsi alle maniglie in alto sulle portiere.

E’ immobile e sembra che dorma.

E anch’io sto immobile a meno d’un metro dal finestrino semiaperto dell’auto, come inchiodata e stordita da un tamburo tribale che dentro accelera il ritmo, mentre tu intanto apri la portiera e lasci filtrare dall’esterno la fredda luce, sbiancandole nudo un fianco, in una sezione vertiginosa che penetra e cade a lama di coltello proprio in mezzo alle sue gambe.

Ma c'è un accenno di sorriso mentre le ti avvicini e le siedi accanto, mentre le scosti i capelli dal volto e leggero la baci, non appena apre gli occhi, poggiandole parole alle labbra che non riesco a sentire.

- Parole tue per lei - impossibile non pensarci.

C'è un’infinita dolcezza quando con metodica calma le scivoli sul seno a cascata, a palmo aperto in punta di dita, indugiando straziante poco più sopra del suo cuore rivale mentre il mio torce alla pena e al delirio.

Dio quanto è spietata la delicatezza! Ora è un nodo di seta che soffoca.

Così la gelosia m’eccita, come uno spago è sottile e tagliente mentre m’attorciglia le viscere, come una morsa quando è ben stretta, poi rilascia più calore tra i sensi intensificando il dolore e la voglia.

E Naima non può certo non risponderti, s’inarca armoniosa come le note d’uno spartito sotto la guida d’un maestro d’orchestra.

E un impulso omicida m’assale, furente: non so se a gridare di più siano i suoi capezzoli come chicchi di melograno maturo che ora macerano sotto la tua tagliola dei denti, o sia la mia clitoride ritta come una lingua di fuoco che pulsa nella frustrazione del piacere negato, oppure sia il tuo orgoglio in fondo gentile che ci sa entrambe a soffrire e a godere per te.

Quando la lasci il suo grido è più forte, le terminazioni nervose ora richiamano sangue, ma presto il dolore diviene un gemito languido, poiché l’aiuti e ne allevi il tormento succhiando e sciogliendo i chicchi rubizzi con un deciso massaggio fra le tue labbra.

Lei soffre, grida e geme, e il mio corpo risponde consenziente a sua volta, rivelando una sorgente spudorata e impaziente, che senza vergogna non trattiene più la sua linfa.

Poi la lasci del tutto, - finalmente -, e, ruotando su te stesso, portando le gambe fuori dall’auto, mi dici appena in un sussurro che svela il tuo fiato spezzato: - avvicinati…-. Ed io d’un fremito sciolgo quella breve distanza, fermandomi quasi fra le tue gambe.

- Alza il vestito… - aggiungi. Il comando è ancora flebile, ma la mia voglia ora non necessità certo d’esortazione.

La stoffa sale, monta, gonfia come un’onda bianca, scoprendo le spiagge calde della mia pelle d’ambra, mentre la luce elettrica e artificiale m'inonda d’urto il culo e s’insinua liquida fra le mie cosce fino ad arrivare a te, limpida come un nastro di luce da tirare a scelta più vicina.

Ci guardiamo.

Il mio desiderio fa un tale fracasso che lo sento trascinarsi nel parcheggio come un canglore di catene volto ad attirare chiunque sia nelle vicinanze.

Poi arrotoli, stropicci, incastri i lembi del vestito sotto i laccetti delle mie mutande, e assecondi il susseguirsi del movimento con lo strusciare del tessuto, della fettuccia che s’assottiglia a filo, facendosi infido e sleale, sinuoso, e per te certo non involontario: - oh Signore… - mentalmente imploro, quasi mi fai venire.

- Stràppami di dosso quest’inutile fasciatura - ti prego muta, soffocando il grido della mia ferita aperta, incapace a rimarginarsi e ancora a colare il suo impulso di vita.

Ed è nel mentre m’imbrachi la voglia affinché sia morsa per me e mostra per gli altri, che Naima finalmente mi guarda. L’aggancio degli occhi è come quello di due treni sullo stesso binario: pronti allo scontro.

Le leggo dentro il mio stesso tormento: l’agonia d’un desiderio che si prolunga.

- Bene, ora sali! - mi dici, già in tono più freddo, indicandomi la portiera davanti dell’auto.

E partiamo, e io devo, devo, appoggiarmi al sedile, respirare più a fondo, per ingoiare un orgasmo che sempre più mi spinge a tradirti.

Ora hai bisogno che lui ti faccia soffrire, che ti laceri il pensiero scardinando l’ordine dei pianeti; hai bisogno che t’annulli al dolore, cosicché il piacere dentro ti muoia e poi risorga d’incendio come una fenice.