01 luglio 2006

Cercando casa


Sono nel salone di una villa vuota, le disposizioni del Padrone sono le mie uniche linee guida, devo portare avanti la ricerca anche se K. è lontana e riportare le percezioni per ogni casa presa in considerazione.

Il venditore mi osserva, tiene entrambe le mani nel tasche dei calzoni e non batte ciglio, mi dà tutto il tempo che voglio per assorbire la casa. Ha capito che le spiegazioni non servono, mi lascia decidere autonomamente. E meno male, il suo seguirmi passo a passo come un cagnolino tra le gambe mi mette a disagio.

Ma la casa mi piace, lo capisco subito. Mi guardo attorno e sono stupita, lo sguardo è rapito da quello che sembra il lungo dorso d’una schiena capovolto, il soffitto compie un meraviglioso arco nel salone.

Il pensiero cerca spazio tra gli angoli spogli e abbina le idee al bianco rivestimento dei muri. Il gioco degli spazi incassati e delle superfici piane è in equilibrio, lo spazio a disposizione sembra allungabile a piacere, consente all’occorrenza di cedere aria al bisogno di respiro. La vetrata è immensa, ad ogni finestra che spalanco il vuoto intorno tuona, io penso alla Sua voce che rimbomba dentro mentre la luce si riversa nella sala. Adesso è tardo pomeriggio.

L’odore di vernice ovunque è ancora fresco, aleggia nell’aria e punge il naso, rende l’atmosfera densa sulla pelle.

“Si sta bene” penso. Riempio quel perimetro che ancora non conosco con frammenti di tempi passati e con probabili eventi a venire, mi riconosco nella volontà del mio Signore, lascio che operi attraverso di me.

I collegamenti mentali sono importanti, sono i suggerimenti che l’inconscio ci regala.

Guardo il bordo delle porte e ne osservo il taglio del ciliegio, in certi punti scurisce e arrossa, quieta per contrasto il candore delle mura. Ma soprattutto mi lascio prendere, dall’intarsio sulle doghe al pavimento, il legno imita magistralmente le posizioni e i nodi di una corda.

Mi colpisce, mi condiziona anche. Non riesco a stare ferma.


Mi sposto verso la cucina e ogni passo rimette tutto in gioco. Mi faccio scena d’ogni volta che starò ai fornelli, con le mani insaponate in mezzo ai piatti, con le mani in altre mani, per il mio Signore senza fine e per i convitati quando è tempo, con la crestina e con il grembiulino bianco. Se richiesto.

Con il culo nudo.

Offerta certa. Umiliazione che intuisco e fremo, d’impazienza.

L’odore della calce viva arriva all’improvviso, il vento accarezza le pareti e la risveglia.

Io mi addosso al muro, riconosco i sensi quando si sviluppano. Crudele, è dover rimandare la dedizione ad altro tempo.

Ma mi riprendo, devo. Seguo il corridoio e già mi vedo mentre staglio un andirivieni di scaffali dall’alto in basso: librerie accoglienti di settimane e mesi e anni di libri e libri su cui lasciar morire in pace tutta la mia fame, il mio bisogno, e la mia paura dell’attesa ogni volta che – e se – Lui deciderà quando.

Mi sconcerta l’intonazione del luogo al mio sentire, metro per metro, mi accompagna conquistandomi, nulla sembra fuori posto.

Cammino e mi soffermo sulla soglia di ogni porta, cerco di appurare la dimensione non percepita dello spazio. Con la curiosità del gatto oscuro ogni zona notte, faccio scendere le luci fino a renderle fioche, poi filtro i chiaroscuri e tutte le ombre, le ombre soprattutto, e metto la Sua mente a timone di me stessa: sfilo i tacchi, cammino lenta, cerco nel buio la Sua presenza al punto da sentirne il peso. Prendo coscienza della distanza come se mi imprigionasse il movimento.


“E’ la prima volta?” alle spalle il venditore mi ridesta, io dimentica per un momento lo squadro senza capire. “Come?”

“E’ la prima casa che vede?”

“No”, perdo interesse e mi allontano. Uscendo dalla stanza tengo i sandali in mano, vado verso l’ultima camera.

Si direbbe un salotto per il patio a veranda che l’apre sul retro della casa. C’è un colonnato bianco.

E’ da sogno, non ci sono parole, stupendo.

Il giardino si perde sotto l’argento delle betulle scosse dal vento. La sensazione è di silenzio primordiale, il frusciare delle foglie afferra il fiato e sopravvive, sembra, al frinire delle cicale.

Non so, la sensazione è paradossale, la quiete io la odio, la temo, eppure mi trasmette un senso di dominio, mi inebria. Il vento solleva e volta, il vestito mi si incolla alla schiena, mi assale un senso di fastidio e di intorpidimento fuori luogo.

Vorrei che ci fosse un letto su cui sdraiarmi qui e adesso, e venire, venire senza staccare gli occhi dalle sfumature grigioblu che la luce azzurra scolpisce nella stanza. Vorrei che Lui me lo impedisse, che il letto fosse un letto di contenzione a trattenermi.

Appagante bisogno, sapermi inginocchiata a Lui per il puro piacere della riconoscenza.

Bisogno, bisogno di sottomissione, di essere a tal punto vulnerabile da lasciarmi andare.

Abbraccio una delle colonne fuori sul giardino e penso, ringhierei fiera, come una bambina abbandonata e in lacrime che supplica ma nessuno ascolta.

“Le piace?”

Il venditore mi è vicino e parla a voce bassa, troppo bassa, bagnata, mentre mi spiega l’estensione della proprietà, la recinzione e il sistema di sicurezza già installato. Lo squadro con malcelata delusione, mentre pare lui scopra cos’è il coraggio. L’istinto lo rende arrogante e disinvolto. L’odore del suo dopobarba misto a quello acre del sudore mi invade, ho la sensazione che mi stia toccando. Serro lo sguardo e prendo la distanza.

Bruscamente dico, “vediamo il piano superiore”. E lo precedo.

Poi ci ripenso, “crede che un’uccelliera possa stare bene qui?”


Passa un momento e “sì” annuisce soppesando il senso, “certo” conferma con convinzione.

“Lei dice? Una gabbia di circa due metri per una settantina di centimetri pensa che possa andare?“ Provocarlo mi diverte non lo nego.

“Il giardino offre molti spazi adeguatamente all’ombra, una voliera starà benissimo” risponde.

Rido. Rido esageratamente e un po’ più a lungo del dovuto lo osservo fissa.

Poi proseguo al piano superiore. La casa si ripete a specchio, la villa è grande, se io e K. dovessimo davvero venire a vivere qui, le possibilità per servire e rendere felice il nostro Padrone sarebbero infinite.

Ed io non desidero altro.

Non so ancora cosa aspettarmi è vero, ma l’anticipazione di come la mia vita si potrà svolgere nel prossimo futuro mi prende alla gola. In parte per l’eccitazione, in parte per la paura.

Penso alla Sua voce che mi chiama, alla mia attesa, alla Sua capacità di trasformare ogni impensabile sorpresa in quello che Lui vuole esattamente che sia. Il pensiero di Lui è una ferita che non cicatrizza.

Bisogno. Bisogno come una punta di spillo che punzecchia la pelle.

Cerco conforto e penetro nel bagno, la pietra è scura e la ceramica è venata di viola. Come farebbe un gatto mi ritraggo, mi acciambello stranamente esausta sul bordo della vasca e incuneo a farmi male le unghie tra le scanalature delle pietre.

Comincio a chiedermi se perderò il controllo.

Ansiosa chiedo se c’è una scala interna che conduce nel seminterrato. Mi risponde di sì, è entusiasta della richiesta, mi dice che c’è un sistema articolato di cantine che il precedente proprietario ha suddiviso in altrettante gallerie adibite alla conservazione del vino.

Mi annienta. La mente collega sottile e non trova nessuna resistenza.

Ho un brivido.

Il venditore fa strada e, ancora scalza, io scendo una scala che parte da dietro la cucina. È stretta e un po’ ripida. L’odore d’aria umida è penetrante, stordisce, ho la sensazione di scivolare e perdermi.

E già le vedo, implacabili impalcature e strutture di legno a dispensare il movimento, il dolore attutito tra le pareti spesse, il tremito sospeso al lume delle candele. Il piacere mi colpisce, mi bacia calmo, mi lucida di sudore il corpo.

Sono completamente immobile e quasi trattengo il fiato. Ci sono travi a sufficienza e ganci, il posto è perfetto per un dungeon.


Questa casa è perfetta. Mi manca l’aria.

“Mi piace, sì” esulto, “riferirò e poi… sarà possibile che venga ricontattato.”

Poco dopo, cordialmente, ci salutiamo.





(A Michael)