02 maggio 2006

Le piume adesso sparse


La porta ossessa il legno sullo stipite e quello crepita di cedimenti rosespine, d’insonnia ai gomiti, per lo sgranare chicco a chicco l’uva fragola sul letto. Ed è la stessa parsimonia ilare e sovrapposta, di uno stordimento fatto aculeo lungo i fianchi, ogni volta che mi si spalancano le anche, in uno strascico da amare.

E sillabano i rosari del risveglio, le note di un martirio di violini già vergato a vista sulla pelle, su ogni pagina dove mi lascio fare, in pentagrammi dalla consuetudine. Dall’impiegarmi che mi flette il collo, e mi ripiega al margine su un foglio, in anfratti fatui, con la pretesa di una ronda sulle rese spoglie della notte fonda.

Quando il sole è inguine alle ombre e sciala ancora, negli specchi, sopra la resistenza delle fronde di una betulla scosse sulla carne. Per la vanesia di mostrare il torto di una danza senza foglie, e il passero gagliardo, che negli acuti e negli arpeggi ha mosso il credo dei miei passi dal romitaggio della sedia alla camera in ginocchio, fino alla grazia dell’assillo sulla sponda al letto, dove le margherite dal color dei lapislazzuli sono state voto e lacci. Ed io, una novena in ultimo aggrapparsi. Finché sul nudo ha stretto il sibilo, e a discapito, le piume adesso sparse hanno cantilenato ogni residuo delle doglie avute lungo il borro.

Mentre la culla della tenda al pavimento non ha mai migrato il tarlo, del candore a pascere sul marmo, dopo che il tocco a fiato della seta sui gradini, e sulle mie ferite, era stato giurìa e leggìo tra le tue mani. Nella risemina del gerlo agli angoli capitali del mio mondo.

Intanto che il sale incordava il sangue, in avaria alle stelle simili alle braci. Giacché eravamo noi l’altalena dei falò in mezzo il mare, a resinare tempie e cori, naufragando le arcate reduci dei corpi con le voci dell’altrove, per l’arare e arare in sottofondo dondolando sulla scalinata lungo il bordo.

Dove iniziò l’imbùto dello sguardo, tra le pieghe in mezzo ai maremoti, con le dita perse in dolo, per privilegiare sofferenze e frastornanti onde di capelli. Nell’officio di una scorza di parete, raggiunta dalla balaustra, mentre mi schiudevi le barriere di corallo tra le nebbie. Per una luna superiore. Nell’arrembaggio di un solo albero maestro a stordire tutte le mie labbra aperte.

Fino a sbattere, per ormeggiare questa stanza e le mie rive, furiosamente dalla roccia lungo l’edera delle scogliere oscene. Risalendo dai gradini, a ricamare indenne, con la spuma e con la pece proprio le lenzuola, dove la marea assassina ancora invade, in albe rosse, la mia darsena piangente trasportandovi il tuo nome.








(A M.)