17 giugno 2005

RISVEGLIO


L'immagine è di Max Pritt.



Era accecante quel raggio al risveglio, un brillare improvviso d’un giorno d’estate nel buio d’inverno, era opprimente quel vano, un gareggiare di fumi che sfiancava i contorni alle ore, che sfocava sui muri diventati giallastri.

Era sghemba la sedia, brunita da un fuoco di un tempo passato, era d’un legno scheggiato che sfibrava in nuda corteccia come in cerca di scampo da una brace sopita che ambigua era parsa eccitata in un risveglio di fiamma e, stava accentrata la sedia alla stanza che, costretta di lacci, mi premeva sugli arti, mi formicolava sui piedi che come immobili bimbi nel gelo quasi più non sentivo. E non era quel freddo che fitto attaccava pungendo la pelle, né quel rumore sordo di strada che fuori, dove il vento soffiava, s’apriva in un buco di suono sperdendosi al vuoto, né quella posa rigida e fissa era una spinta che smaniava alla fuga come farebbe un rapace dentro una gabbia, che amante del cielo, avesse avuto le ali tagliate e un cappuccio sugli occhi, ma era solo davvero il dolore che mi toccava, che mi stringeva, che mi sentiva più vicina alla vita.

Ed era chiamando il tuo nome, che a destra e a sinistra giravo e rigiravo la testa cercando una faccia, una mano, una voce; era scacciando dagli occhi quel sonno, liberando la mente dal dubbio che a destra e a sinistra muovevo e smuovevo la sedia scomposta in pretesa d’un segno, d’una muta presenza che, da sola, volevo a godere nel guardare la scena. E giravo e muovevo, che ad ogni piccola mossa, saliva precisa una morsa alla guancia, tirava una stretta di sale e saliva, una striscia rappresa di glassa e vaniglia che il gelo sfrangiava in fragili fogli, un liquore che la lingua scioglieva sui denti come un latte condensato di notte, in quella notte appena trascorsa che in una scia aveva lasciato la voglia, la domanda sul nome a cui dovevo quello sbafo di crema, io che ricordavo una notte soltanto d’eccesso di sesso tra Angela e me.

E chissà poi, pensavo, quale peso portavo che la tua mente sgravava, quale colpa tenevo che il mio corpo penava e chiamavo e chiamavo senza avere risposta, senza che la mia mente in aperta carrozza ormai tenesse più le redini in corsa di una ragione avvinghiata alla folla affrettata di mille promesse, a quelle follie riversate e perverse che un amore, un amante imprevedibile mente. E pensavo che sapevo di ritrovarmi da sola, che solo sentivo una ventola lenta come un caldo respiro nel fumo disperso che saliva e a fatica scendeva, che spirava e in aria esalava come un velo d’ovatta nel freddo che fermo la pelle opprimeva, sotto quel fascio di luce che come una spada era pronto all’offesa sulla carne mia nuda.

E intanto che un dolore schiacciava le tempie come se avessi battuto la testa, come se dentro si preparasse una guerra, una miscela d’alcol e droga s’innescasse ad oltranza, solo ancora restava una notte tra Angela e me ancorata al ricordo come un naufrago a una falsa speranza su un atollo deserto, solo appena un qualcuno muoveva nascosto nell’ombra, in quel corridoio fumoso che una porta sul fondo apriva all’ignoto, un qualcuno che era rimasto immobile ore a osservare la scena d’un nome gridato più volte, pregato di dare colore a un perché ripetuto con l’anima e il cuore.

Così aspettavo e ascoltavo quel movimento di passo tra il corridoio e la stanza, stendevo le pieghe spremute dall’ansia e così come, distruggendo una diga, la corrente dal fondo tutto prende e travolge, così quella tensione convulsa da dentro flagrava un’accorata passione, scalciava stravolta una voglia sublime. E mi piaceva plagiare il pensiero, pregare la resa, finché non presero forma e misura le braccia, la voce ed il sesso violaceo di un uomo, d’un animale avvolto nel cuoio, in evidente delirio.

Mi avevi ceduto come si fa con un’auto usata che ancora bene è capace di tirare i cavalli, che è bella e rodata alla grande, mi avevi umiliato piegandomi a un altro senza neanche guardarmi negli occhi, senza darmi nemmeno il diritto di concedermi almeno il consenso.

Ti avevo tradito, credevi.



(A Michael)