Changing slave’s name
Il primo giorno come A. mi svegliai prestissimo, l’aria era fredda nonostante fosse estate. Anche se all’epoca non me ne rendevo conto, avrei imparato quanto potevo essere forte; oggi lo dico con orgoglio, ma c’è voluto del coraggio.
I lividi sono stati dei segni, le ferite dei simboli. Gli incontri che mi hanno vista ogni volta diversa mi hanno insegnato a incassare. Avevo un anno di meno e mi rendevo conto di essere nel letto di nessuno, non era più il mio letto. Non era più il Tuo, Michael.
Dopo C., ho arrancato su per un sentiero dove ogni volta c’è stato qualcuno che ha provato a sorreggermi, c’è sempre stato qualcuno. Una prigione in cui mi costringevo per l’assurdità di quanto era accaduto, sembrava che i miei polsi, legandoli, mi aggrappassero a qualcosa. Come lasciavo andare la presa, il legame si sbriciolava, cedeva, e io affondavo nel buio.
Frastornata e incerta, mi sentivo in trappola; avevo l’occasione per ricominciare, ma ricostruire era un onere che non volevo avere.
Fu C. a darmi per primo un nuovo nome, mi soprannominò A., fissandomi in un istante un’identità diversa che non conoscevo. Mi diceva sua, mi chiamava e io rispondevo, sembrava che tutto potesse filare liscio. Sembrava… me la sarei cavata, me lo ripetevo, Te lo avevo promesso.
Ma A. era un nome che pesava troppo perché riuscissi a sostenerlo, non ero io, non lo ero mai stata e mai sarebbe stato diverso, continuavo a tenerlo su di peso. Rispondevo al suono non appena l’udivo, A. mi chiamavano e mi voltavo come un animale ammaestrato. Le vocali erano suoni aperti e dolci, un nome ambiguo come di ciliegia, che mi definiva santa e puttana; ma nel frattempo non facevo che scivolare lontana da me, finché un giorno C. aprì la sua mano, e fissando i miei occhi pieni di panico, mi lasciò andare.
Non poteva fare altro, quel nome non mi apparteneva, io non appartenevo a nessuno, continuavo a cadere in un burrone. Sentirmi chiamare come quella che non ero, era un dolore che mi trafiggeva in petto, un arpione che si infilava nella mia carne e mi spronava a seguirlo, a rispondere a comando, perché stavo cercando di darmi un senso o, almeno, di recuperarne uno. Solo che il dolore continuava a riportarmi indietro, a Te, la mia carne si strappava, più e più volte insieme alla mia anima, e altri sopravvennero al rapporto con C. .
A. è stata la prima delle nuove attribuzioni, la designazione più efficace comunque, l’unica che abbia tenuto fino al Tuo ritorno. Mi legava a Te e al giorno dell’affidamento, ripagava il rispetto che avevo mantenuto per C..
Ma ricordo quando fu a S. a parlarmi, per tutto il tempo che ci conoscemmo avevo continuato a dichiararmi Sophie, perché come se non esistessi continuavo a ignorarmi, negavo chi fossi poiché non potevo più esserlo. Poi S. si avvicinò a me, era un martedì, e come se il dolore fosse un elemento necessario per ottenere potere, mentre con un ago mi trapassava la pelle, mi disse che da quel momento sarei stata Ismas.
La sua piccola Ismas, la sua cagna. E una cagna è il padrone che la battezza, dal momento in cui la prende in consegna.
Andando di ricordo in ricordo, so che di Anna ho già detto, è durata il tempo di una notte e nessuno ha saputo.
In pratica ho cambiato nome come si cambia un vestito, mi guardavo allo specchio e non pensavo più che quel corpo fosse il mio. Ero come al di fuori di me, ogni volta che mi specchiavo vedevo un’estranea che mi guardava, una donna sconosciuta che viveva la mia vita.
Non riuscivo ad aspettare, indossavo un vestito e tiravo dritta, fermarmi avrebbe significato colare a picco. Mi ci è voluto tempo per smettere di boccheggiare, dopo un po’ mi sono accorta della mia assenza oltre che della Tua.
Adesso, più di un anno dopo, dopo alcuni mesi insieme, rifletto, sulla capacità di trasformarci che abbiamo, di ridurci in niente ma anche di lasciarci galleggiare indisturbati per passare attraverso il mare e le rocce, senza affogare. Penso a tutti i miei nomi e spalanco gli occhi, capisco cosa è accaduto, e me ne terrorizza l’immensità, mentre ne ammiro la calma che mi ha portato.
Michael, ho imparato a sentire quanto puoi allontanarmi dalla riva, ed è come alzarsi un mattino e scoprire che i propri occhi possono vedere più di prima.