Yanaka
Dopo che partisti, «torna presto» venne a riferirmi K.. È passato un mese, comincio a chiedermi quando sarà quel giorno.
Per questo sono tornata a Yanaka, già una volta, lì, avevo desiderato di fermare il tempo. Non è stato un caso che abbia rivisto il giardino.
L’uomo cui pensavo, su quelle pietre, mentre il canto degli uccelli si udiva in sottofondo, è il mio fantasma da giorni. Ti somigliava.
Le fronde dei rami tremavano sfiorate dal vento, l’aria era piena dei loro schiocchi leggeri, l’afrore dei corpi affollava il sentiero.
Il sole del tardo pomeriggio posando sui tronchi emanava i profumi del legno. L’estate lassù è particolarmente umida, al tramonto aleggiava nell’aria un odore di animale selvaggio. Istintivamente sono rimasta immersa per qualche tempo in quel profumo, premeva sulla pelle, il calore racchiuso sotto la stoffa del vestito rispondeva al tocco delle mie dita. Ho trattenuto un poco la mano ma sarebbe stato inappropriato proseguire, colta dal timore che mi stessero osservando mi sono allontanata senza guardare indietro. Non sono più la stessa.
Sugli ultimi mesi in Italia grava uno strano silenzio, evito risposte dirette e i gesti sono diversivi delle intenzioni. Lo so. Posticipo le mie reazioni, sto imparando lentamente a custodire il tempo.
La verità gentile che mi hai insegnato a capire, «ci si incanta sempre a guardare gli alberi», mostrandomi la strada per arrivare, a Yanaka compie sempre il rito della prima volta. «Gli alberi non vogliono svelarti tutto», dicevi, «c’è sempre tanto da scoprire, gli alberi hanno la pazienza di aspettare». Ho riassaporato una gioia profonda ricordando questa lezione lontana, con un impeto d’ebbrezza ho riafferrato il significato del precetto: onorare l’attesa. Con fedeltà e con dolenza.