09 maggio 2006

K.


di Pascal Abadie



Specchi, specchi ovunque.
Una bimba muta con le fascette ai piedi, dagli occhi d’ossidiana.
Aveva un modo molto forte di toccare, eppure così tenero ogni gesto, da sentirlo umile.
Il tempo si fermò, finché lei non tolse le mani ed io alzai la testa e la guardai: era rossa in volto e con i capelli disfatti che le ricadevano sul collo.
Non aveva mai ricevuto un impatto così forte con una donna.
Quanti tralci d’amore potevo inventarle?
Le dita sanno comporre infiniti duetti, due mani, due piedi e una lingua. Onde in cui annaspare amorevoli fiati, pressanti, sessuali, a trasudare amore come se fosse olio.
Si scopava con calma, senza disperazione o rabbia, era un atto d’amore. Senza paura della bellezza che si aveva di fronte, senza mancanza di fiducia per un abbandono che portasse il vuoto. C’era tenerezza e non furia. C’era amore per un’altra se stessa.
La presi con una tale dolcezza che alla fine pianse, per quanto era bello, così libero e commovente.
Tutta la nostra storia ce l’avevamo sulla lingua. Guardarci era guardare il narcisismo.
Una fica è un paesaggio da non trascurare, ci sono argini e dirupi, varchi acquosi da scendere, e piccoli promontori dove portare il tramonto.
Leccare una fica significa immergervisi dentro e con un’implacabile premura farne il centro della propria coscienza, aprirla e distenderne ogni piega, ogni nervo come se fosse una corda. Si tratta di scioglierla, liberarla dal vuoto riempiendola.
Senza esitazione, senza pretesa, impazzendo con lei dalla gioia.
Invitandola alla leggerezza con un’intensità dirompente.
Significa stemperare l’ansia dell’amore, separare il tempo con le dita erranti, fino a desiderarle lingue, molteplici lingue. Onde a risalire il ventre, e dal petto alla gola, fino all’anima indecente fra le labbra. E lì dirglielo, “sei bella”.
Senza vergogna, sfacendo il silenzio, arcuandola.


(A K.)