29 settembre 2005

Lettera a Lettera


L'immagine è di Heidi Calvert



Seguivo le curve inchiostrate del testo tra pagine e pagine bianche, le onde dei caratteri a venire nel loro spingersi in fondo, la corsa d’ogni frase inseguita dal tempo.

Con la marea delle parole, lì, s’infrangeva il canto incerto dell’abbandono di due occhi verdi dentro il sale portato da un pianto, rimasto ancorato al mormorio mesto d’un cuore lontano.

Laddove la svolta sul punto concedeva pause, il canto impietoso si scioglieva in sviolinate struggenti tra gli scrigni della memoria. Là echeggiava confuso, evocando momenti isolati di caotiche nebbie. In mezzo a loro, e tra le altre perle nascoste della mia storia, innalzava note di lettere viola a ricordare il tempo della mela immatura.

Tanto che mi ero ritrovata all’istante. Dopo infinite notti riascoltavo la mia voce artefatta. Dopo infinite scelte ritornavo al bivio col passato. Dopo infiniti volti rincontravo gli occhi ed il sorriso d’una vecchia maschera. E così mi spingevo fino ad afferrarla prima che sparisse nel vuoto, fino a strapparle quella faccia bugiarda, fino a prenderla a schiaffi per la sua derisione fasulla.

Poi ancora rivedevo… rivedevo il tremito sottile di lettere in sghimbescio, il perdono, le ragioni e la denuncia messi in fila indiana e in lettere maiuscole. Risentivo le tessere del dòmino in caduta, gli affondi di punta di penna sul foglio e tra le dita, nell’attimo in cui si oscurava il credo, il verbo del decidere mentre salpava, incredulo e perplesso, dubbioso come un ago di bussola vicino al polo nord. Riemergevano tremanti le mie mani, mentre richiudevo al bordo i gualciti lembi di un amore rimandato al mittente, abbracciato alla polvere come un corpo quando la vita ancora non batte l’ultimo chiodo di cassa. Rileggevo così quella lettera a riscoprire il primo rullo di tamburo rovesciato sul silenzio di due spettri ad un passo dall’altare, che mostrava la via della liberazione ma era davvero solo una croce. Così di nuovo, scivolata da un cassetto, come un capello di troppo nella minestra, la riavevo fra le mie mani. Ne scorrevo con lo sguardo la superficie pallida come la chiara di un uovo e mi ipnotizzavo nel ricordo. Ed è bastato un attimo, scovando i me e i te, prima ancora che gli occhi riattraversassero quelle righe non spedite, a rivivere tutto. Rianimavo quel tuorlo d’uovo messo da parte e riavvertivo la forza del tormento, come quando alla fine preferii lasciarti senza troppe parole.

Da allora di nuovo ripensavo… ripensavo alle strade di Venezia, costruite nel dedalo della mia mente, alle calle delle scappatoie che mi sbrigliavano da te per le mie notti. Rivivevo… rivivevo le manciate dei baci come coriandoli stinti di un finito carnevale, ben lanciate da una bocca scostumata ma travestita da innocenza che impalcava i giorni ormai da mesi come una recita a teatro. Rimuginavo… rimuginavo l’impronunciabile nenia, il nervo scoperto, in bianco e nero tra quelle pagine smarrite, esitanti come un pettine su un nodo. Non riuscivo a dirti che Qualcun Altro mi aveva colto al tuo giardino, chiuso dentro una teca di cristallo, e che da tempo rimiravi solo un fiore finto…

E quello era il momento, un fulmine, dovevo rintracciarti e svuotare la stiva della roba rimasta in sospeso, stantia di domande e risposte che necessitavano di aria e respiro. Era finalmente l’ora della liberazione, lo zabaione pronto a dare la carica. Era, dopotutto, passato del tempo.

Una lettera, aggiungendo la prima, fu spedita senza rimpianto.



(A Gabriele, settembre 2001)