Menzogna
La bugia è penetrata nella mia vita.
Con una tendenza inconscia, in cui mi imbatto sempre più, pur nella sua consapevolezza distruttiva. Provo un senso di disperazione e di incredulità risoluta, una forma di annullamento perseguita attraverso il reiteramento atroce di una consunzione fisica e mentale. La menzogna mi appare come l’unico contatto possibile con una realtà che mi sfugge, e in cui non credo più, nella menzogna ritrovo un erotismo ideale che mette distanza tra me e il tempo più oscuro. Più Nero.
Senza menzogna in questo tempo non potrei socializzare, non potrei forse dirmi così sensibile. Mentire è un momento che ghermisce all’improvviso e forse si maschera da verità.
Avverto l'autodistruzione nelle mie azioni, la più disperante ironia desolata e triste tra i miei incontri, scettica e al tempo stesso piena di speranza per un rinnovato equilibrio, che voglio, ma che non c’è e non arriva. Se non in termini di coscienza diretta e sofferta, nell’inutilità dello sforzo per mutare me stessa, e la circostanza, secondo una sensazione per cui cresce l’odio per il fallimento e il senso del ridicolo per il tempo perso, insieme alla consapevolezza mesta che non c’è nulla da fare e altre menzogne verranno con il passare del tempo.
Mi faccio satira di me stessa, divento violenta, su di me come su tutti gli eventi tragici dell’esistenza, mi faccio profittatrice d’Essenza che intanto prosegue al di là della mia sofferenza, perpetuandone i metodi. E la menzogna diventa quotidiana, prende il controllo, si inganna con l’appagamento di una stabilità altrimenti irraggiungibile, si fa scrittura – oggi - scrittura su un’immobilità angosciosa, perché inconscia, della mia vita che prende molteplici strade volendone però Una sola.
La menzogna mi squarta l’anima, per ogni via in cui mi riconosco sempre tra eros e morte, fra stanche avventure, legami perplessi, menzogne e desideri che si accavallano e si cannibalizzano incessantemente. Con un’autentica inettitudine alla liberazione e allo slancio per evadere oltre il consueto mentire, concepito proprio come catarsi giornaliera, per un ricadere ogni volta più cupo dentro lo stesso spleen per cui tale concezione non può bastare, nell'inutile persistenza della stessa, nei vuoti ragionamenti, sempre uguali, come ritornelli di un tempo che passa insensibilmente da un giorno all’altro senza che nulla - o quasi - muti, né cambi la coscienza del vivere, implicando una svolta o uno scatto per raggiungere quell’Unico che voglio.
La ferocia spasmodica della gioia che provo, è profondamente nel mio cuore, ma è anche dolore; la menzogna è nello stesso tempo, tremo a dirlo, “il cuore della mia morte”: si apre in me e mi dilania la mente. L'ambiguità di questa vita è la ragione per cui rido e piango.
Il passo che mi porta a riconoscere “la puerilità della ragione”. Della ragione che non sa mai misurare i suoi limiti. Limiti dati dal fatto che inevitabilmente il fine della ragione eccede la ragione stessa e la supera. E, attraverso la brutalità del superamento, mi coglie, nel disordine delle risate e dei singhiozzi, nell'eccesso di un trasporto molteplice che mi spezza, tra orrore e voluttà che eccede, tra dolore della fine e gioia insostenibile.
E, tra le altre cose, il mio corpo si svende e si trasforma in icona carnale, del piacevole dolore di vivere, nell'attesa, magari, di fondersi con il Desiderio inconscio che alimenta tutto. Il mio corpo è il "carnaio dei segni"; un’epidermide adattabile a identità molteplici e metamorfiche, ad arti cui la mente scambia gli abiti.
Il mio corpo è racconto di lacerazioni, e, senza dio né dèi, rappresenta la consapevolezza della menzogna di un corpo che inganna i propri sensi confermando la relatività del vero. Il mio corpo è una gabbia mortale ed è un “tabù identitario”, che insegue il mito del superamento dei propri limiti, nello sforzo di porsi come prova d'esistenza o alternativa di realizzazione anche oltre ciò che può avere.
Il pensiero di non dovermi mai voltare indietro diventa un fondamento, ma quando esso si trasforma in un precetto da dover necessariamente rispettare, per quanto mi ostini a fare l'impossibile, dalle mie azioni nasce solamente il fiore della menzogna. Menzogna verso me stessa. Un fiore che con le spine ferisce il cuore, con l’illusione che di far avere la rosa e non solo le trafitture.
L’eros continua a stare nell’occhio della mia mente, alla stessa distanza da Colui che non giunge. E, intanto, fuggo l’occhio chi mi guarda a fondo, ma tanto più lo fuggo, tanto più mi sento colpevole e tanto più rivivo la colpa come violazione alla purezza di ciò che Credo. Il mio rifiuto è pura menzogna, so bene che solo nell’occhio di un “altrui” posso perdermi per ritrovarmi. L’ostacolo allora lo sublimo, “que la vitre soit l’art, soit la mysticité…”, e su di esso mi spingo con un pensiero nuovo: la nudità del vero ha bisogno di un freno per poter essere guardata, richiede di incorrere nella colpa della menzogna fosse anche un sogno, perché il sogno, che è “nudità del pensiero”, si manifesta menzogna quando si tenta di scoprirlo nella sua integrità. Tutto passa attraverso la stessa distanza – le regard – e ciò che resta è l’evocazione del Lui vissuto e implicitamente espresso, richiamato, anche dove non appare.
Così, ogni lei in cui mi vivo è una promessa d’essere, e, insieme, la dimostrazione della sua concreta impossibilità. Ogni lei si incarna davvero; ed è, miseramente ma realisticamente una “persona”, ossia il travestimento del mio dramma, il travestimento indossato da qualcuno che è, me stessa esattamente, ma desiderosa d’essere solo e ancora e sempre, Una. Sua.
Ogni lei è una menzogna che si reitera, pur snaturandosi, è un’allucinazione istituita come una simmetria perfettamente illusoria. Io e ogni lei siamo “due persone” che si ritrovano l’una di fronte all’altra, si desiderano e si finiscono, finché non resta che congiungersi. Ma, due persone non possono, veramente, congiungersi: non appena si preparano a farlo ecco la separazione, tanto più sostanziale quanto più il congiungimento appare ingannevole.
L’ostinazione irragionevole con cui le mie due - o più - “persone” si sforzano di congiungersi, è simile a quella del fissarsi, o di un obiettare, con la propria immagine riflessa nello specchio. Un’immagine perfettamente speculare, speculare nella mia diversità e nella mia specificità di relazione.
Ogni volta, nel frattempo, la mia inquietudine mi obbliga allo scrivere, con la cognizione che ciò che offro, è strozzato da un’emozione alterata. Perché guida la mia mano la menzogna, che, di troppe inganni riprovevoli, si nutre ogni giorno. E, così aspetto, prima o poi, che sbrani anche me, che mi sbrani tra le parole che riverso per colui che inganno e per quell’altro con cui fingo. La menzogna fará da padrona. E, mia cara scrittura, verità che si rivela, nell’istante in cui ti scrivo, ora, vorrei che sapessi che sono svestita. Vorrei strillarti, non ascoltando lo sgomento del cuore, vorrei farti sentire che piango e che ho dato, alla pioggia, Un Solo Nome. Vorrei urlarti, tra gli abissi delle mie contraddizioni, che al finire del tempo, ci sarà un altro tempo e sarà solamente Il Suo. Vorrei lasciarmi scavare, senza pietà, dalla falsità che diffondo, e tornare di nuovo, soltanto per i fiati tra le Sue mani, mio unico desiderio, mio unico marchio, capace di portarmi via da queste catene di disgrazia falsata e pesante, in cui da sola mi sono affissa, e continuo, per soffrire in ogni modo la Sua assenza.
(A Michael, leggendo Bataille)