23 giugno 2005

Hélène


L'immagine è di Arne Jahn.


Le onde del vento piegavano il filo sospeso nel vuoto dei miei pensieri lontani. Mi trovavo dalla mia amica Hélène, all’ultimo piano d’un palazzo barocco del quartiere Coppedè a Roma. Non avrei creduto mai prima di allora che sarei stata capace di tornare, ma lei è rimasta sempre sicura che non avrei dimenticato. Sarà che il tempo langue il rimorso, pensavo, seguendo la pioggia col dito del mio umore scrosciante. Erano passati quasi quattro anni, e tutto era rimasto così uguale, così immobile persino nelle forme che fisse lo specchio imitava dall’alto. Anche la curva dove indugiavo il respiro, formava perfetta ancora lo stesso angolo morbido. Meraviglioso.

Lei stava seduta sul bordo del letto, con le ginocchia appena accostate e vicino, nell’incavo che racchiudeva il segreto, il ricordo ancora sentiva dolce il dondolio della testa tra le sue mani. Ancora qualche gabbiano giungeva dal mare e lasciava sulla bianca terrazza la traccia precisa di una libertà fuori luogo, di una distanza colmabile solo volendolo. Ed io ero lì, incredula alla gioia che animava il racconto e le nostre vite diverse. Rideva lei, ragazzina, e scioglieva lacrime nel fiume del limpido vivere da quello che era stato il ghiacciaio dei dubbi passati.

Più la guardavo, più ritrovavo il sole di quel pomeriggio d’estate in cui la incontrai nel profumo di un pergolato di glicini, sotto il pianto azzurro-violetto dei corimbi morenti. Il desiderio in un momento aveva già imparato il suo nome. L’indifferenza aveva iniziato a dettare le regole, ingenuamente, conscia della sua vulnerabilità, e guardava impassibile il sorriso che lei aveva istruito al compiacimento. Ma il desiderio, sul campo delle emozioni, la superava, da sempre, in velocità. Al che bastava, avvertire forse davvero inventare, non che fosse importante, così che riusciva a rigenerarsi da sé, come un ermafrodito, una qualche arrendevolezza nei gesti che volesse porgergli invito.

Era bellissima.

Lei era felice, si incorniciava tra i capelli in un oro di luce: imbambolata in un quadro d’indefinibile. Lasciava scivolare la spallina alla veste e convinceva d’essere troppo libera per recitare solo intenzioni. L’avrebbe detto chiaramente, con una sicurezza che non era la sua, nella mia stessa sorpresa della prima volta. Ero tornata da lei, poiché, in vista d’un party che riuniva le conoscenze d’esordio mie e di Michael, lei era stata la punta di lama che aveva diviso la strada che poi avrei percorso d’un fiato.

Cercavo nella mia voce cordiale quella nota antica legata al passato, dove ciò che provavo risuonasse distinto, dove le sensazioni valicassero certe apparenze, e dove quella che ero stata, indecisa e crudele, riaffiorasse gettandomi in un senso di colpa. Quell’estate la convinsi a partire con me anche se la conoscevo solo da un mese, affittammo un appartamento a Slunj in Croazia per goderci la favola dei laghi di Plitvice, e ci riservammo i giorni a venire per districare quel filo, breve, e tagliato di notte e senza preavviso, che ci aveva legato l’anima: il corpo.

Due amiche condividono tutto, scambiano abiti e dormono insieme, e a volte anche giocano a fare le amanti fino a convincersi un giorno d’agosto a non giocare soltanto con i baci e con gli occhi. L’aria era satura d’elettricità come prima d’una notte di pioggia e del vento che con forza porta scompiglio, e come pure le nostre mani e le bocche assetate che si riempivano d’attesa e di sfogo.

- Ci stai pensando vero? -, ripeteva. L’ultima frase a quel raccontarsi, che di nuovo, era tornata a perdersi nel calore e nei battiti di lei premuta contro di me.

Quando prese il mio viso tra le sue mani, come quattro anni prima, sentii di scivolare in una verità che mi aveva tenuta bloccata ad un muro, di aprire la porta rimasta socchiusa dopo quella notte di fuga, e dopo averla insultata d’essere un mostro per avermi mentito. Con la stessa crudezza decisa e impressa al ricordo, già mostrava il suo gabbiano nascosto, e liberava il suo volo d’audacia oltre i confini e al di là d’una distanza illusoria che ci scopriva diverse più di quanto lo specchio al soffitto potesse riflettere.

“Lui” era un mio desiderio.



(A Hélène)