01 ottobre 2005

La FUGA


E’ un incubo…




La strada era vuota.

C’era solo una lieve foschia di vaporosa acquerugiola, polverizzata e cangiante sopra i marciapiedi alla luce dei lampioni, con il vento strisciante che accarezzava i vetri alle auto posteggiate; con la fretta invisibile dei ratti acquattati in sordina per la fame; con il miasma dell’immondizia da tempo accatastata che si trascinava come una moltitudine d’insetti in febbrile serpentina.

La strada era all’inizio l’unica certezza.

Fino all’arrivo di una donna poi, lì di corsa, come un binario che entra in galleria, accerchiata dalle filari alte dei palazzi, ingrigiti e spenti. Con la notte caliginosa e senza tempo che ricoprendo tutto le accompagnava i passi e, invero, pareva indurglieli al centro della carreggiata che avallava: i suoi passi, il muto scalpiccio dei piedi nudi, lo strusciare ruvido e spedito dei suoi muscoli estensori nello sforzo sull’asfalto.

S’inoltrava lei, nervosa, e a tratti volgeva il capo indietro.

Affrettava frenetica le gambe, affondando l’ansia nelle pozze d’acqua sparse qua e là lungo quella striscia nera di bitume, e gesticolando d’inquietudine le braccia, gli occhi guardinghi fissi alle sue spalle, avanzava inconsciamente tormentata mentre intorno restava fermo lo scenario, come irremovibile. Su ogni lato opprimevano strutture chiuse d’inanimati piani, come enormi blocchi di cemento plumbeo, che stavano fitti-fitti, soffocanti sulla prospettiva statica di lei, lattea e in evidenza dentro quell’oscurità; mentre si replicava interminabile l’istante della sua vana fuga.

La strada era uno stretto imbuto, ad un certo punto piegava ed impennava finché d’un estremo si congiungeva distintamente verticale al cielo.

Così, all’improvviso.

E cosicché sopra di lei - confusa nella nebbia - prese a scendere di fino un’intensa pioggerella, una micidiale osmosi di piombo e biossido d’azoto, a corrosione dell’atmosfera che scioglieva sotto i piedi oltre la strada la sua carne viva.

- Argh…

Distinguibile anche da lontano, qualcuno - io dentro un sogno - con distacco l’ascoltava, a lei, nel lamento acuto dell’ustione, nella sofferenza di ogni sua piaga nell’aprirsi, consumata fino all’osso e già montante ed invasiva attraverso i tendini alle cosce. Ché ormai la pioggia era anche la sua veste, liquame plastico che interamente l’avvolgeva; era metallo fuso che le picchiettava addosso e, senza posa, la squagliava; erano gocce come aghi che a cascata la infilzavano e le iniettavano il dolore.

Gocce, che s’insinuavano tra i capelli e le scalpavano la cute; che le bucavano il dorso delle mani, disperate, brandite in alto a protezione della testa; che le smozzicavano stilla a stilla le falangi, mentre a brandelli le staccavano ogni ciocca che svaniva al vuoto ancora prima di toccare il suolo.

La strada era allagata, bloccata tra gli scheletri rimasti degli edifici sterminati dalla pioggia, devastata da quel fiume d’acqua che gonfiava come da un treno deragliante in liquida discesa.

Io, la sentivo dentro la strada, e lei, mentre dormivo; la tenevo nel profondo del subconscio, e mai mi sarei stancata di stare ad ascoltarla - da quella lucida distanza - mentre quell’acido le s’infiltrava addosso e lei tutta dissolveva.

Ce l’avevo dentro lei, mentre moriva con le mie stesse grida.

Lei, un incubo.




…così vero ed ossessivo nel suo tornare che l’ho scritto qui tentando un esorcismo.