24 aprile 2006

Vertigine





È il momento che precede l’apertura.

Prima che slabbri la certezza.

Prima che l’attenzione catalizzi diventando lucida. Consapevolezza.

È subito prima. Quando la vibrazione accelera il respiro.

Immobilizzando l’attimo. Annullando il resto. Colmando di energia.

È prima.

Perché nel prima c’è l’attesa, il desiderio e la paura.

Nel dopo…

… spesso, c’è avvilente debolezza.

Quella dell’estasi, raggiunta senza testa.

Nel crollo.

Quella che lascia vuoti.

Fa stare male.

È solo mentre accade, mentre penso infinite volte di ripeterlo, di prolungarne l’apice. Di struggermici dentro, per un attimo in tutt’uno con me stessa, esule dal mondo.

È in quella vertigine per me lo squarcio, piccolissimo, di una punta d’ago.

Fredda.

Più fredda del reale.

Così bella da guardare, così sottile mentre incide.

Mentre sento lacera la pelle e il senno.

A strati.

Perché è proprio quello che cerco.

Attraversare il senno. Bucare la ragione. Per qualche istante bloccare il flusso dei pensieri.

Così da fare di ogni cosa senso.

Timore.

Coraggio nell’affondo.

Brivido.

Bisogno.

Dolore necessario.

Un dolore da dirmi demone, se in quel momento mi guardo allo specchio.

Un dolore che poi passa, si dimentica di sé, oltre un certo punto, man mano, sotto la superficie.

Dove la fitta si fa assenza, e non s’avverte più.

Dopo l’ansia. Quando la sorpresa infervora il piacere. Dà una scossa cerebrale. Istantanea.

Ripetuta, come il gesto.

Quattro. Dieci. Quindici volte.

Gocce di sangue.

Mi folgora quel fuoriuscire così vitale e inerme. Brillante.

Mi emoziona ogni volta sempre uguale.

Mi ipnotizza.

Di autolesionismo.

Di fuga.

Di libertà.

Il riconoscimento della propria identità. Il sentirsi, di nuovo, senza perdersi.

Eppure non capisco.

Perché lo cerco questo tipo di dolore? Perché adesso?

Non è il bisogno che è nuovo. Questo lo so.

Mi nasce solitario ogni volta che Lui mi mette alla distanza. Ogni volta che temo l’abbandono. Ogni volta che una crisi diventa frenesia e tiene insonne le mie notti.

Per l’astinenza.

Per la solitudine e per la colpa che mi faccio.

Per la sofferenza altrove – e mentale certo – che assorbo.

Che cerco addirittura.

Masochisticamente.

Sì, questo lo so. Ma perché adesso. Perché?

Perché se ora Lui è con me. E non c’è distanza.

Non c’è abbandono.

Non c’è ansia che Lui adeguatamente non estingua, in dialogo o “meno”.

Mi chiedo quale è la pena. Latente. Che mi spinge dove prima arrivavo per altra via. Quale è?

Non lo so ed ho paura.

Ecco è questo che volevo dire: ho paura.

Una paura fottutissima.

La paura che aborro.

Oggi scrivere non mi basta. Nonostante la parola che amo.

Nonostante l’enfasi.

L’esaltazione che mi serve sempre.

Mi aiuta.

Esorcizzandomi di una forza che non ho.




(A me)