Percorsi
di Pascal Abadie
K. mostra per me un grande affetto. «Il resto è ombra», ha detto questa mattina sicura di se stessa, fermandomi prima che uscissi dietro di lei. «Legata all’oscurità, chiudo gli occhi e sono felice.»
Mi ha guardata con riconoscenza mentre parlava, «sei arrivata a me come il canto della cicala. Ti devo molto, aki no sora.»
Aki no sora… cielo d’autunno, mutevole. Da un po’ K. mi chiama così, intuisco una grande dolcezza nei suoi occhi che brillano, e nel ricambiare con un sorriso, ho visto quanto il suo sguardo appartenga a quello di Lui.
«Sono felice, aki no sora, non mi accadeva da un’eternità».
Il suo sentire è parso provenire dalla mia testa, la sua gratificazione mi ha colpita. La spontaneità si è intravista dalle sue mani, protese verso di me, come lei stessa con tutto il corpo quando si è voltata.
«Abbiamo vissuto vite separate», ha ricordato, voleva parlarne e anch’io. Continuavo a immaginarla mentre si toccava verificando l’effetto prodotto dal suo corpo, ma non le avevo mai chiesto, beninteso, oltre quello che aveva voluto dirmi di sé.
Sono sempre rimasta nel vago, avvertivo la sua inquietudine e le mie stesse domande mi facevano palpitare.
In seguito Lui ha voluto che ripartissi da qui, lontana da casa, e questa è stata l’unica condizione in cui ho continuato a imbattermi. Essere Sua, in un dono totale e senza ritegno.
Ho aspettato che K. capisse, non si formavano altre parole, e la tristezza è sembrata infinita sul suo volto. L’eco del suo sguardo ha rinnovato il mio sorriso pronto a intervenire.
Il suo sconforto è diventato il mio, avevamo sofferto entrambe e raccontare appariva come un discorso non ancora destinato a finire.
La calma ha preso qualche secondo senza che dicessimo nulla.
Poi, ho detto, «abbiamo avuto vite diverse, è vero, ma il nostro destino sarà uguale.»
Ho ripensato ai singhiozzi che avevamo trattenuto e messo da parte allo stesso tempo, tutti quei mesi senza sapere come e se e quando, avevamo dato via tutto. Di volta in volta Lui aveva espanso la nostra coscienza avvertendo l’estrema violenza dello sforzo.
Prendendoci per mano aveva fatto in modo che restassimo divaricate e scosse, aperte e pronte, ognuna a suo modo. Ci aveva gettate al contempo all’indietro, eravamo state entro corridoi di cui non distinguevamo i tratti.
Ma eravamo sempre state disposte a farlo.
Calde come il sangue, eravamo andate e venute in coro. In Lui. Come brani da letto, per una melodia perfetta che unicamente insieme stavamo afferrando.
Ho quindi cercato di farmi intendere da K., ho spiegato, «lungo il sentiero, la cicala con il canto esala», dichiarandole la donna di cristallo che ero stata, prosternata sotto il Suo dominio, «per dire di non aver paura e di lasciar perdere ciò che non significa molto».
«Okini, aki no sora, okini», K. ha ringraziato più volte, il mio corpo ha subito risposto. Distendendo le braccia, lasciando che il sangue circolasse sotto la pelle, ho riportato in superficie tutta la mia dipendenza di donna che aveva atteso il Padrone a cui si era votata, e l’ho stretta tra le braccia. Per metterla a suo agio e ringraziare a mia volta, ho cercato di farle trovare me stessa.
K. ha compreso bene che non dire può significare onorare, perché raccontando non si riesce a fare immaginare tutto.
Per cui abbiamo ripreso ad andare, la mia mano nella sua commuoveva e io ho sentito, ci saremmo amati.
Tutti e tre.
(A Michael e K., Agosto 2007)