13 novembre 2005

03.45 am – 13 novembre 2005




(frammenti, fremiti, meticolosi e lesi)


Non riesco a capacitarmi, ogni volta, che possano esistere animi tanto perversi e crudeli, persone capaci di montare la rabbia a comando per il puro piacere di vederla sfogare. Non riesco a convincermene, ogni volta, prima di varcare la soglia di quelle stanze celate allo sguardo dei più.

Uomini e donne che umiliano e rampognano simili; che ne costringono gli arti in legature complesse, che ne immobilizzano e ne flagellano il corpo al solo scopo di godere dell’inebriante disarticolarsi dei gesti, dei convulsi movimenti, delle urla e dei gemiti repressi del (s)oggetto al supplizio.

Per tutto il tempo, mentre resto in silenzio, a mia volta prigioniera consapevole del male, lo riconosco io non comprendo davvero la letale bellezza di quei tormenti fagocitanti, di quelle strane forme di morte; ma, seppure non possa dire di capirle, mi è impensabile il sottrarmene.

Ogni volta in quelle celle, sotterranei dungeons di ville custodite fuori mano, lontano dallo sguardo indiscreto degli avventori dei plastici privè, in questi e in altri spacci di trasgressione underground si libera il pudore, l’istinto nega l’abolizione della sevizia, della tortura.

La mente è sempre più foriera di nuovi ed insoliti meccanismi di agonia.



“M. mi ordinò di restare immobile, ero libera eppure impedita nei movimenti dalla mia volontà. Inchiodata alle braccia della croce, mentre i colpi della snake si susseguivano con una frequenza ed una intensità tali da togliermi la capacità di ragionare.

L’ordine era semplice, eppure non sono stata in grado di seguirlo: il dolore mi contorceva involontariamente i nervi, mi dimenava contro il legno; piangevo, lanciavo lunghi gemiti senza riuscire a trattenermi.

E fu un attimo, al che le conseguenze della mia inadeguatezza, del mio essere scarsa, mi obbligarono di fatto ad accettare una totale fissità.

M. mi ridusse in mummia, servendosi di numerose bende elastiche, più o meno grandi. Mi avvolse singolarmente le gambe, poi le braccia, il busto, isolandomi completamente in una sensazione artificiale. Mi lasciò scoperta sul retro delle cosce e sul culo, lasciandomi immaginare il resto del castigo.

Sopportai ore ed ore della mia insignificante presenza, posizionata ad un angolo di stanza come un appendiabiti o una pianta ornamentale. Finché, fradicia degli umori a cui avevo dato sfogo, M. si decise a darmi considerazione, mi appese ad un paranco; dove mi prostrai, ulteriormente, nella mia condizione di incapace.

Lo vedevo, godeva della mia immobilità. Si esaltava del mio sgomento muto e della mia vergogna, mentre i miei occhi si dilatavano dal piacere, palesandomi priva di una qualsivoglia minima decenza. Non avevo dignità, lasciavo fare.

A piacimento M. mi spintonava, mentre io prendevo ad oscillare in volo a mezz’aria. Mi vessava con lanci di cera bollente, mi veniva vicino e, lentamente, faceva colare quella crema calda tra le mie cosce aperte. Mi bruciava, costringendomi così a contrazioni meccaniche dei muscoli, talmente improvvise, da comprimermi violentemente il torace.

M. mi controllava il respiro.

Ed era evidente, la morsa della mia sofferenza lo tirava in una dolorosa erezione, al punto che sfuggirono, - lui lo sentì, io lo capii -, alcune gocce di sperma.”




(A Michael, 03.45 am, 13 novembre 2005)