Elogio della parola scritta
Le parole sono mani di uomo che sanno cosa mi piace e di cosa ho bisogno.
Ogni volta è lo stesso, io mi stupisco, della capacità che dimostrano standomi dentro, ripetutamente, prima che io riesca a rendermi conto. Io le lascio fare, è così bello sentirsene oggetto.
Ma l’emozione dipende troppo dall’interpretazione, la lettura dovrebbe abbandonare il significato delle parole, fare in modo che esse siano senza definizione. Se lo sguardo attraversasse la pagina senza attribuire una forma prestabilita, ma di volta in volta la scegliesse sconosciuta, allora sì, la mente riuscirebbe a liberare l’immaginazione e l’arte non avrebbe confine. L’emozione godrebbe nel raccontarla, della stessa risonanza vissuta.
Ed è così che l’esasperazione che sento, nutre il desiderio, ma alimenta anche la scrittura.
Le parole tornano come un’ossessione, come il bisogno che c’è dietro.
In pratica, se in tal modo sembra costituirsi una regola, in realtà è essa che decade.
La follia è una verità non rivelata, il segno concreto di ciò che c’è oltre quello che sembra, è una volontà respinta che dà voce al silenzio.
La follia è il non-linguaggio della vitalità, quella inespressa, se si palesa logora la certezza, apre un vuoto accertandone l’insopportabile esistenza.
Il pensiero quindi, per garantirsi una rassicurazione, affibbia alla follia esattamente la propria inadeguatezza, almeno finché la mente non si arrende, ponendosi in contemplazione passiva, semplicemente prendendo atto di ciò che è senza più nascondersi.
L’inevitabile chiusura è la necessaria voce dentro che grida, chiede di mettere in luce le ombre della vita, si rivolge alla poesia.
La poesia è come io mi sento, dolorosa al sacrificio dell’essere conforme.
Ogni espressione riprodotta è una piccola morte, un dispendio liberatorio che conduce alla trascendenza, con la stessa immediatezza dell’eccitazione quando prende, con la stessa violenza del dolore mentre esalta, giacché la poesia non chiede che d’essere fine a se stessa.
L’orgia delle parole sul foglio ha una componente voyeuristica, il piacere di guardare la propria estasi nel momento in cui la si raggiunge, mentre lo scrivere è incontrollato e il movimento della mano sempre più veloce.
Ma l’estasi, perché possa dirsi esausta, necessita della condivisione e quindi di rendersi pubblica.
La scrittura è una ferita aperta, sviscerata e nuda sotto lo sguardo di chi la riconosce e vi si avvicina. È un punto di contatto con l’esterno, è la negazione della distanza, è un ponte sul vuoto che l’incomprensione crea, così come la vita quando è fuori dall’ordine comune.
La scrittura è la consapevolezza della disuguaglianza, del bisogno dell’altro per sentirsi completi, al punto che chi legge, tanto più si riconosce per iscritto, tanto più forte sente il legame indotto dal testo.
L’oscenità e la violenza minuziosamente descritte hanno la funzione di cantare per contrasto la dignità dell’esistere.
La manifestazione esplicita del dolore, nero su bianco, mette in risalto il bisogno d’esserci, in un mondo in cui il male coesiste col bene ma non viene accettato.
La frase che ne contiene l‘aperta dichiarazione, ne rende possibile l’accettazione, in quanto il male è giustificato attraverso la condivisione.
Il mio con Lui. Il mio con te, che leggi.
L’esposizione viscerale di posizioni, di lividi e di umori, è lo scoprirsi oltre la superficie. È il togliersi la maschera e il mostrarsi senza inganno anche per ciò che solitamente si nasconde.
Le immagini sono un’offerta all’altro, colui che legge esplora direttamente dall’interno, faccia a faccia con l’eccesso, senza risparmio, per una celebrazione sottointesa della vita fin dentro l’annullamento nella sua morte stessa.