Sono "Anna"
“Come vuoi che mi vesta?”
Era chiaro cosa mi aspettassi da quell’incontro già da questa semplice domanda. Non che sia significativa una predisposizione in tal senso, ma quando non ci si conosce, chiarire la posizione che si sta occupando ha la sua importanza.
Come il modo che aveva P. di pronunciare il mio nome, lo includeva in ogni frase, il nome che gli avevo lasciato credere fosse il mio. Era una delle ragioni per cui avevo deciso che non mi sarei fermata lì ma sarei andata avanti. Mi piaceva.
“Lo sai Anna”, diceva, per attirare la mia attenzione e per sottolineare che era proprio me che voleva. “Umile. Per compiacermi.”
La risposta aveva un che di retorico, di rituale, di inutile, eppure al punto in cui eravamo, era quantomeno necessaria: ci eravamo conosciuti su una delle tante adult chat, poco meno di un mese prima.
“Va bene” dissi, glielo sussurrai, volevo che sentisse la mia determinazione non meno della mia vulnerabilità.
Non mi ci volle molto per trovare l’albergo, prendere l’ascensore nella hall e presentarmi. Lo feci. “Sono Anna” dissi, tenendo sempre gli occhi bassi.
Era facile come recitare una parte che si conosce a memoria. In quei mesi lo avevo compreso bene, il piacere mi era effimero, il sesso anonimo non mi interessava, è che non potevo fare a meno di tornare in quel pozzo nero che era il degrado e l’umiliazione.
Non ero mai stata cupa, ma era un brutto momento, e provavo un’irrefrenabile attrazione per tutto ciò che zittiva la bestia che mi portavo dentro.
Ero condannata da forze che sembravano fuori dal mio controllo, per questo cercavo di aver rispetto del buonsenso e della logica prima di ogni incontro, ché dopo, sapevo, l’animale sessuale non ne avrebbe tenuto conto.
Ho sempre trovato l’atmosfera delle stanze d’albergo pericolosamente sensuale e quella volta non fece eccezione.
Ero tristemente consapevole che poi molti dettagli mi avrebbero ferito profondamente, rimanendo incisi nella mia memoria, segnandomi con il loro squallore, rendendomi irriconoscibile, ma era quello che cercavo e ciò nondimeno in seguito mi avrebbero eccitato tornandomi in mente.
P. aveva chiari occhi castani, capelli brizzolati ed era di media altezza. Aveva un abbigliamento abbastanza curato ma soprattutto mostrava di avere il grado giusto di malizia consapevole, non era né supponente né presuntuoso. Si poteva fare.
Non appena entrai nella stanza e lo vidi, trattenni il respiro, era sempre così anche se ogni volta era diverso, in caso contrario sarebbe mancato qualcosa. Ero nervosa, spaventata, eccitata, ero vulnerabile ma irrimediabilmente convinta di ciò che stavo per fare.
Era una droga, lo è sempre, mi ritrovo per forza a pescare nelle acque torbide della mia natura inquieta. Non posso resistere. Ma la cosa peggiore era la consapevolezza che avevo in quel momento: trovarmi lì mi era doloroso e alienante.
Avevo bisogno di allontanarmi da Te, Michael. I ricordi erano inarrestabili, tornavano dal passato rapidi ed enfatizzati, erano brutali. Dovevo ridurmi in una dimensione parallela, dove per quanto sadiche potessero essere le richieste di un uomo, le avrei ridotte al mio dolore o al mio piacere a seconda di cosa avrebbe voluto infliggermi.
In fondo, subivo solo ciò che desideravo.
Inseguivo l’onda delle sensazioni tale da poter nascondere il mio malessere accuratamente e in un qualche senso, volevo un’indubbia dose di ferocia, interminabile, rovinosa, anche se sapevo che nulla avrebbe eguagliato l’intensità selvaggia di una sottomissione assoluta.
Solo questa mi faceva sentire realmente viva.
Solo Te riuscivi a farmela sentire, esplorandomi internamente e aprendomi un varco dove mi ritrovavo spalancata e vuota, piccola e pulsante. Lo sapevo, solo Te, e questa consapevolezza mi faceva ancora più male, se possibile.
Così, senza sapere cosa avrei fatto, tornavo a scollegare la mia mente, e per quanto talora potesse essere estremamente pericoloso, il bisogno era irresistibile.
Sentivo P. che esaminava ogni centimetro della mia pelle, giudicando, valutando, soppesando ogni mio difetto. Mi girava intorno mentre restavo immobile.
Avevo lo sguardo basso ma sentivo il rumore dei suoi passi intorno a me, dietro di me, finché a un tratto mi sollevò i capelli.
“Bell’esemplare” disse, apprezzandomi come se fossi stata un animale da fiera e – sì – mi incitai, – così! – .
Ero ancora al centro della piccola stanza quando P. mi disse: “sei pronta?”.
“Sono pronta” risposi. Preferivo quella mancanza di dialogo, non mi chiedevo perché, quello che volevamo era chiaro a entrambi. Ce lo eravamo già detto, eravamo d’accordo così.
Poi P. mi diede uno schiaffo, forte, “questo per farti capire chi comanda” disse e mi ribollì il sangue, rabbrividii. Non lo avevo meritato – o forse sì? –, ma non aveva importanza. “Non sei docile “Anna”, ti sottometti, ma qualcosa mi dice che nella tua testolina non sei affatto docile. Sei ribelle.” Sottolineò, il sorriso enigmatico.
Mi piaceva quanto fosse andato vicino alla vero, mi piaceva, ma non risposi. La guancia pulsava e doleva ma non dissi niente, ero certa che sentisse la mia determinazione crudele. Volevo istigarlo.
In quel momento il silenzio tra noi era potere.
I miei occhi lo fissarono, espressivi ma tristi, consapevoli eppure rassegnati. Sentivo ancora il calore persistente sulla mia guancia quando mi ordinò di spogliarmi. E lo feci.
Lentamente.
Mi spogliai in una posizione innaturale, che permettesse a P. di continuare a guardarmi, srotolai la gonna godendo della sensazione elettrica per la staticità accumulata.
Mi ero dovuta piegare e non riuscivo a vederlo, ma ero certa che non mi perdesse di vista. Intuivo la corsa dei suoi occhi dalle caviglie all’interno delle mie cosce. L’ispezione era implacabile, lo sentii quando si soffermò sul mio sesso liscio e nudo.
Poi P. mi diede un altro schiaffo. Distogliendomi dai miei pensieri. Da Te. Per fortuna.
Mi piaceva.
L’unica cosa che volevo, era l’allentamento del controllo.
Rabbrividii di nuovo. Percepivo in lui una determinazione fredda e inquietante o forse, era solo l’adrenalina che mi scorreva nel sangue e permeava ogni muscolo e nervo del mio corpo.
P. mi circondò il collo con una mano e mi controllò il battito appena sotto il mento.
Respirai profondamente, temetti il peggio eppure, bramavo il piacere che si celava dietro quell’atto, desideravo scivolare nell’oblio.
Volevo urlarglielo, esplodere, gridarglielo ad alta voce: “trattami come l’inutile troia che sono”, ma controllai il mio desiderio insopportabile e non dissi niente, non ero ancora al limite, volevo l’annullamento.
“Inginocchiati” ordinò e obbedii.
P. mi girò attorno e si mise davanti a me. Sfilò la cinghia dai pantaloni e credetti che stesse per colpirmi. Ma si voltò e vidi il suo culo liscio e pallido, la pelle che scuriva scendendo verso il centro del solco. Notai che non era molto peloso, ma avevo visto di peggio.
“Dai!” ringhiò, e subito avvicinai la mia bocca al suo sfintere, lo aprii con entrambe le mani, con delicatezza, evitando di fargli male e di infastidirlo. Non sentivo nessun sapore. Solo sapone, all’inizio.
Solo il tremore che lo percorreva mentre con piccoli movimenti della lingua, umidi e dolci, lo leccavo, disegnando piccoli cerchi dall’esterno verso l’interno.
P. si piegò di più e “di più…” sussurrò. Lo capii, era un ordine comunque, o me l’avrebbe fatta pagare. Lo feci. La mia lingua guizzò nel buco, spinsi, feci forza ed entrai di almeno un paio di centimetri. Sentii i suoi muscoli rilassarsi, non c’era resistenza ai miei piccoli assalti. P. si accovacciò quasi, permettendomi di scoparlo meglio e l’odore si fece forte, pungente, rivoltante, affascinante.
La cavità era pregna di saliva, di sgradevoli secrezioni. Tolsi una delle mani dal suo sedere e afferrai le sue palle, stringendole lievemente. Erano piene, la sua erezione era perfetta, un’arma letale capace di devastarmi.
I miei movimenti diventarono inesorabili, gli entravo dentro con la forza della mia disperazione. Ero insensibile al dolore delle ginocchia a terra, alla tensione del collo per la posizione prolungata, alla difficoltà che avevo di respirare schiacciata contro la parete interna delle sue natiche.
Minuto dopo minuto la mia pelle si imperlò di sudore, mentre sentivo allentare la frustrazione di quell’infrastruttura pericolante che era
“Di più… di più!” impose, e sentii che stava per venire. I miei muscoli bruciavano, sul collo, all’interno delle cosce, ma non mi fermai. Non volevo riposo, era il mio martirio che cercavo. Mi mossi avanti e indietro e mi ritrovai quasi incastrata dentro di lui. Fui instancabile e vorace.
Poi lo vidi spruzzare sul pavimento, liberandomi la faccia e dandomi modo di respirare normalmente. Rimasi in ginocchio, in silenzio. Eravamo a qualche centimetro di distanza, “resta lì” disse, e capii che stava per andare a lavarsi, “non farlo” lo fermai. P. si voltò e mi guardò in faccia.
“…” voleva dire qualcosa ma lo interruppi. Rabbrividii di me stessa, la mia reazione fu elettrica, immediata: mi avvicinai con un’espressione innocente e rimasi ferma, dritta davanti a lui con gli occhi bassi.
Silenziosamente mi rendevo conto che quella era l’unica via per allontanare Te dal mio fondo.
Avevo la gola secca, lo stomaco chiuso, avevo paura ma molta aspettativa. Finalmente i miei pensieri erano dispersi agli angoli più remoti della mia mente.
“Voglio sentirmi solo usata” sussurrai e riconobbi il coinvolgimento che destai in lui.
Piegai verso il pavimento, in segno di obbedienza, per sciogliere la tensione e per fare intendere a P. che volevo che il capriccio fosse il suo. O non sarebbe stato lo stesso.
P. avvicinò il suo cazzo ancora gocciolante alla mia bocca e cominciai a leccarlo, con metodo e con desiderio.
Ricominciammo.
Il dolore che mi attanagliava la mente sembrava assopirsi davanti all’infinità di varianti che dovevamo sperimentare.
Ero lo strumento della mia lussuria e la lussuria era la crocifissione del desiderio intollerabile che sentivo per Te.
E fu quando urlai la mia estasi che il cappio che mi teneva stretta a Te prese a stringere di più. Cercai di arginare le onde del piacere ma non potei evitarle, si diffusero rapidamente nel mio corpo e fu Te che vidi e sentii e volli mentre venivo. Mi morsi la lingua e mi contorsi dal piacere mentre il suo cazzo mi impalava. Non riuscii ad ingannare l’aspettativa del dolore. La mia mente fu inarrestabile. Il piacere mi aveva intrappolata. Era sempre così, inevitabile. Godevo per Te. Soffrivo.
Dopo, restai con lui non più di un’ora. Non parlai molto. Non c’era nulla che volessi dirgli.
Ci lasciammo con la promessa di rivederci, ma non risposi più ai suoi richiami.
Quella era la mia versione personale dell’inferno, P. non ne era stato che un girone.
(Settembre