08 maggio 2006

Lo Scontro



Sul bancone del bar i calici di rosso erano scuri come il sangue secco.

Michael mi sedeva a fianco, teneva una mano sopra la mia. Mi carezzava, all’apparenza distratto, e quel contatto mi riempiva di una gioia infinita.

Lui mi rassicurava – lo fa sempre nei momenti chiave – mi dava coraggio, mi indicava la via.

Poi, mi risalì gli avambracci con un gesto semplice ma efficace, e mi serrò stretta. E questo bastò, perché io perdessi la decenza. Riuscivo a sentirlo in modo inequivocabile, tanto ero ricettiva.

Di fronte, uno specchio mi rifletteva. Ed io mi riconoscevo, sottomessa. Sentivo bloccare l’impulso che mi animava dentro, il rancore: dal pomeriggio la discussione con K. non mi dava tregua, aveva lasciato evidenti tracce di battaglia, sfoderato le unghie.

“Tu non hai bisogno di me, tu non hai bisogno di nessuno, andresti avanti da sola comunque, non ti manca niente, hai quello che ti serve… per me dovrai essere un appoggio invece…”, la voce di K. mi echeggiava stridula nel cervello, le sue parole erano confuse e strascicate, io mi sforzavo di capire.

– K. non parla la mia lingua e non è semplice. L’uso di pochi vocaboli e il ricorso ad una mimica delle intenzioni snervano nella convivenza, sono causa di silenzi e di fraintendimenti. –

“Avrò bisogno di te, dovrai aiutarmi a capire. Per Lui, solo per Lui… in fondo, vogliamo la stesa cosa. Tu sei così intelligente, così disponibile, ma così dura al tempo stesso. Tu riesci a non farti toccare, sei sicura… ed io ti ammiro molto.” La capivo a stento e la sentivo falsa. Lei mi sorrideva.

“No senti, per favore… è meglio che lasci perdere”, avrei voluto dirle, spiegarle chiaramente come la pensavo, ma lei non sarebbe riuscita a tradurre che qualche parola.

Era frustrante. La comunicazione non sarebbe dovuta mancare.

Ma dovetti limitarmi ad un mugolio dubbioso che le facesse intendere, “andrà come deve andare”, ché in parte volevo rassicurarla, avendo bene in mente la mia condizione e la sua, non potendo quindi permettermi altro.

Michael mi prese da parte quella sera stessa. Uscimmo per discuterne.

Parlavamo ed io sentivo la potenza di un essere completamente opposto al mio che mi veniva contro, sentivo lo scontro.

Mi ordinò di aprire la camicetta, mentre con una mano mi afferrava un seno stringendomi un capezzolo da sopra il tessuto.

Due bottoni soltanto, sarebbero bastati.

Sfoderò la carne e il pallore spiccò generosamente sotto gli occhi di tutti – a Lui piace scandalizzare ed io sono un’esibizionista –.

Qualcuno sicuramente ci osservava.

Il capezzolo duro, riconosceva il tocco inappellabile delle sue dita.

Mi faceva male, ma lasciai fare. Almeno finché la stretta non mi portò al limite della sopportazione, costringendomi nonostante ci provassi, a dichiarare sconfitta la mia resistenza.

Mi sentivo arrabbiata, e la tensione mi rendeva contratta oltre il dovuto.

Amo il dolore, ma quasi subito cominciai a chiedergli di smettere.

“Almeno un momento”, piagnucolavo. Ero patetica.

Ma le mie suppliche non servivano a niente. Lui mi strizzava inesorabile.

Mi castigava.

Mi stritolava rigirando quell’indifesa appendice tra le dita.

La mia pelle veniva tirata, si tendeva, ho creduto che si sarebbe smagliata.

Sebbene non fosse la prima volta, né la seconda, né chissà quale ormai, il seno era – e rimane – la parte più sensibile del mio corpo. Troppo sensibile.

Mi faceva un male bestia.

– Le mani, infliggono una morsa infinitamente superiore, sono cesoie a tumefare. Come i denti.

Le mollette, al confronto, sembrano languide carezze. –

Io ci provavo ma non riuscivo a sopportare il male – se mi ci metto so essere maledettamente testarda –.

Lo imploravo. Lui non ascoltava.

Gli serrai violenta con entrambe le mani il braccio.

Fu una reazione istintiva, e così altrettanto la sua, ad inchiodarmi al banco, ad impedirmi di difendermi, trascinandomi in avanti, verso di Lui, tirando il capezzolo. Un dolore annientante, una fitta lancinante mi ha annebbiato la vista. Gemetti forte e pensai al peggio. L’idea della morte mi sfiorò il cervello, immaginai una lacerazione insanabile.

“Togli queste mani”, la sua voce era crudele, il tono inflessibile.

Lui distruggeva le mie speranze, eppure mi piaceva sentirlo così.

È un assurdo lo so, ma amo il fatto di non riuscire a commuoverlo –.

Mi sentivo vulnerabile, mi vedevo solo un fragile involucro. Era la nemesi della razionalità. Ero la bellezza che Lui ama distruggere.

Ma a volerlo certo, a volerlo, avrei saputo fargli capire se davvero smettere. Invece, lo scongiuravo di fermarsi e mai avrei voluto che lo facesse.

Lo insultai, ma obbedii: allontanai le braccia e lo guardai fisso negli occhi.

Un istinto profondo quanto il dolore mi imponeva di dargli il mio sguardo, di urlargli il mio bisogno, e di lasciarmi sopraffare. Adorai, il compiacimento sul suo volto.

La disperazione mi contraeva in uno spasmo, stavo dando spettacolo. Ero mezzo chinata sul banco, avevo ormai perso completamente il contegno. Mi lamentavo, mi agitavo, e finii per rovesciare un recipiente sul pavimento.

Solo il buio e la musica nel locale mi erano di un qualche aiuto.

Era l’oblio, non riuscivo a pensare ad altro che ad un chiodo conficcato nel carne, e me ne convinsi, ce l’avevo. Mi sentivo trafiggere, scavare, il dolore mi apriva un buco, mi spezzava il fiato.

– Il fatto è che, ogni volta, quando la sottomissine mi induce alla lotta, l’esaltazione si impossessa di me superando le aspettative. È la potenza della forze in gioco, è lo scontro dei bisogni sui fronti opposti. –

E quella sera era così, oscillavo tra la rabbia e la gratitudine.

Più mi ostinavo ad essere testarda e ribelle, più mi sarei contorta dal dolore, più il piacere sarebbe stato maggiore.

Lui mi sottometteva ai miei stessi impulsi, con l’unico scopo di farmi resistere, nonostante la protesta esacerbante. Era come trattenere un orgasmo.

Ce ne erano infatti gli elementi: il tormento del desiderio impossibile, il piacere, il rifiuto a cedere.

Lui mi rendeva strumento ad un piacere più grande di me, che non avevo fino in fondo, ma che sentivo. Ed era meraviglioso, implorare che il piacere non si esaurisse, mentre non riuscivo a trattenermi.

Infatti, finché la sofferenza non mi lasciò, continuai a chiedermi quanta forza può contenere la mano di un uomo, ma quando invece divenne difficile resistere, cominciai a pregare che ne rimasse ancora dell’altra.

Ero felice di avere un tempo e un luogo per noi, con un unico scopo comune, l’estenuazione massima del piacere. Il riequilibrio delle forze.

Lui mi struggeva, pressando la mia pelle fino a non riconoscerne la forma, e il dolore cresceva insieme alla mia superbia e alla mia ira, arrivando all’apice e dandomi pace.

Ancora una volta il dolore cambiava. Mentre sentivo il capezzolo pulsare, ondate di piacere mi sollevavano in alto.

Altrove. Senza toccarmi. Nuovi spasmi mi dilatavano in contrazioni intense.

Finalmente la mia rabbia si rassegnava. Io sdebitavo la mia colpa, sganciavo la discussione con K. come una bomba.

Il mio corpo divenne puro calore, il mio lamento una nenia dolce, il mio sguardo un limpido oceano. Io stavo godendo.

Venni sulla punta delle sue dita, per quell’unico chiodo ad attraversarmi il corpo, estenuata da un orgasmo mentale.

K. aveva ragione, non mi mancava niente, ero quello che volevo essere: una bambina piccola.

Ed ero abbastanza intelligente da capirlo, disponibile da riuscire ad esserlo, e sì dura, da apprezzarne lo scontro, seppure non facilmente toccabile da qualunque contesto. Ero semplicemente sicura di volerlo.




(A Michael, la mia strada. A K., per camminare insieme.)