16 ottobre 2007

Presenze


di Jean-Christophe Périé



Non l’ho voluto subito. Quella sera, intendo. Il vento che fischiava sbattendo senza riguardo le tende dei negozi. La notte era pesante e aspettavo l’autobus affidandomi all’ombrello sotto la pioggia. Ciò che non vedevo non esisteva. La sua faccia apparve sotto la chioccia della pensilina alla fermata.

Di sorpresa.

Cercavo il biglietto nella borsetta nera e zeppa e non pensavo. Ripetevo a mente il programma della serata gettando gli occhi in direzione del traffico. Sulle molte auto in coda e sui volti indecifrabili che sfilavano dietro i finestrini. Una mano poggiò sul mio braccio.

- Ti ho trovata, finalmente.

Pensai che il temporale e la stanchezza e il rumore dei pneumatici sull’asfalto avessero confuso le parole, non mi voltai. La mano restava immobile, e la voce tornò dietro di me. Non la riconoscevo. Eppure quelle dita c’erano, con quella pressione leggera che mi chiamava a girare la testa. Non volli dare un volto a quell’agitazione o sbaglio di persona, spostai il braccio e non appena il bus aprì le porte salii a bordo.

- Aspettami!

Il soprabito finì con il ricoprire parte della mano nel movimento, mi tirò indietro costringendomi a ruotare almeno d’un quarto il corpo e la mente si ghiacciò. L’autobus era ripartito e una donna di mezza età mi venne di fianco. Un uomo si alzò con fare di cortesia.

- Valentina.

Mi fermai su quel nome che era uguale al mio. Era la stessa voce e il tono e il respiro a pronunciarlo. E paura, forse, ma finsi di non aver sentito. Guardai oltre il vetro, verso le vetrine in fuga. Mi ritrovai il suo corpo contro senza dire nulla.

- Scenderemo alla prossima. Sono con te, lo senti?

Mi bloccai con gli occhi sulla donna davanti, sui cappelli scuri e gonfi e amalgamati dall’acqua e sapone.

- Cosa ti succede, non vuoi? Sono qui.

Avanzai per superare quella testa bruna e mi tenni forte all’apposito sostegno. Consideravo di scendere al capolinea e al più tardi tra una ventina minuti. Il tempo che avrebbe preceduto l’arrivo del metrò.

- Che cosa credi? Dimmi.

Lo ripeté al seguire di una carezza sulla schiena, una persuasione che mi fece voltare di scatto per mettere uno spazio tra me e l’abisso. Sforzai il collo dalla parte opposta per non vedere.

- Ti ho cercata.

Sospirò portandosi verso un angolo libero, attirando per qualche secondo la consistenza del silenzio nell’assurdità acuta di un clacson. Mi obbligai a restare con il capo girato.

- Non è cambiato niente. Mi conosci e io conosco il tuo smarrimento e terrore. Il bisogno. Forse è l’ansia di guardare indietro a bloccarti adesso.

Rifugiai da quelle parole sussurrate: non tentai di ascoltare e alla stazione in avvicinamento, distante appena la discesa dal mezzo, partii per il marciapiedi annesso dirigendomi verso il binario.

Cercai un distacco.

- Grazie. Sarà per la prossima volta?

Sperò l’intonazione.

Sperai anche io. Era inevitabile. Annuii. Il viaggio più lungo che raccontai fu quello di una voce arrivata da lontano. Ricordi S.? Poche parole sapevano dare almeno quanto avrebbero avuto.






(A S.)