04 maggio 2006

Dolore





La beatitudine l’ho conosciuta mentre ero voltata di schiena, con la faccia al muro, mentre alla frusta seguivano colpi di cane.

La pace ho imparato sta oltre il dolore. Il segreto che muta la pietra in oro, l’anello mancante, è l’oltrepassare il dolore. Dopo che è stato assimilato, il dolore scompare e dà avvio alla trasformazione. Il piacere, da solo, è un’effimera soddisfazione. Una contingenza, che si esaurisce in un soffio di candela. Il piacere vero, è un’anestesia lungo tutto un cammino verso qualcosa di più alto, più profondo, più intoccabile. Un cammino impervio al confine con un’irraggiungibile verità, verso un infinito conoscere se stessi.

Il dolore non può mentire, non ne è capace: se io mento, sopraggiunge l’incapacità a sopportare. E cosa rende più puri e più vicini alla pace dell’essere se non l’incapacità di mentire? Se non la libertà dal condizionamento di essere emotivamente in un modo o in un altro?

Il dolore tanto è più puro, più completo, fisico e mentale, più porterà sull’orlo della follia. E la follia è libertà incondizionata.

La disperazione, la tristezza, la rabbia, non hanno alcuna possibilità quando il dolore passa attraverso.

Il dolore non può raccontarsi se non lo si conosce, poiché non gli si saprebbe dare la stessa risonanza. Né se ne può dire con chiarezza quando ancora se ne sente l’ebbrezza, o quando del dolore è rimasto solo il ricordo. Giacché il desiderio, la nostalgia, ne deformerebbero la verità con la vanità e con il rimpianto.

Il dolore aumenta la concentrazione. La ricettività accentua l’azione, non la svilisce, non è letterale passività: seppure si fosse immobili e in silenzio. Il dolore penetra e impedisce alla volontà di sapere, di controllare, di comprendere, di analizzare. Il dolore costringe all’apertura, alla vulnerabilità, all’abbandono.

E il passaggio è come un dono. Come una gratificazione. Una sorpresa. Una sorpresa travolgente e sollevante.

Il dolore mentre trasforma, fa trovare quel qualcosa o quel qualcuno cui sussumere il proprio io, la propria volontà, il proprio essere mortali e definiti. Riconduce la vertigine della vita in piccolezza, a parte del tutto, è una sinéddoche scritta, e svincola le proprie responsabilità. Le riduce all’impossibilità di tenerne conto. Il dolore rende agnostici, incapaci di assumere una qualunque posizione.

Il dolore è un viaggio verso l’eternità.

E dopo, riecheggia indimenticabile dentro.

Il dolore, l’indesiderabile per antonomasia, l’antiromantico, non lo è per me: la cui idea di idillio inizia in ginocchio, con lo sguardo basso, in indefinibile attesa.

Il dolore è un demone, ma una volta che il centro del terrore è stato violato, si scopre che la paura è infondata. Si trova il sentiero proibito, l’originaria via seguita da Eva: l’estasi.

Una delle verità della sottomissione, della sua bellezza, della sua potenza.

Avere la terra promessa, in senso reale e metaforico.





(Michael, I feel your mark on my skin. My body is curved, much more than I remember it being. My tongue is stopped down, is a chain of silence. I lick my knees. I slightly flicker like a candle under stinging wounds, while the whip comes down and the pain screams strong. I drag in the dust, your touch tightens rings and, between them, you lock my craving urges. I weep, weep for my pathway into inner world, for each cane snap on my bare ass. I fight moments of fear, flaming and drowning in desire when I fall down into the grace of your sure hands.)