05 ottobre 2005

ALTAMAREA


L'immagine è di Sukumar


Mi ero ripromessa che sarebbe arrivato il momento, l’attimo in cui l’alta marea avrebbe oltrepassato anche la spiaggia, laddove la terraferma abbraccia rassicurante il flutto, e lì mi avresti guardata come ancora non credo possibile, che da tempo i tuoi occhi sfuggono i miei e la tua voce serena non la sento da molto; giacché la mia mente finora ha nutrito se stessa come in carestia il corpo quando cannibalizza di sé quello che c’è, il tuo ricordo dentro di me.

Ma prova a capirmi, non potevo lasciarmi morire o vivermi in sogni e in illusioni per sempre, non potevo certo aspettare che mi sfiorissero gli anni, non potevo, eppure ad andarmene ho sentito la terra mancarmi dai piedi, un vuoto d’aria che mi ha colto indifesa come se in volo e senza ali da dire è finita; così sola, che ho aspettato passasse il momento temendo lo schianto finale.

Si è arenata la chiglia agli scogli da quando i miei pensieri presero il largo e, contro di te, scesero fulmini impropri dalle mie labbra; ma tanto è che, a ripensarci adesso, di quegli impulsi senza controllo non mi so dare ragione né senso per crederli miei. Tutto, da allora, con te ogni volta si allaga senza riuscire a mettere diga e senza però affondare questa pena che affligge; sul fondo almeno nasconderei i tuoi occhi che mi riflettono in mente, il tuo nome e il sapore di casa arrotolato alla lingua che ogni ora reclama di richiederne ancora. Ma sempre invece, io vedo a galla incontenibili resti.

E’ che le rotte intraprese sono state diverse, io su esotici lidi baciati di poppa e di prua, mentre una sirena assillante strillava l’errore degli impeti anonimi, mentre fari a distanza urlavano l’alt del non passare avventato tra i faraglioni stranieri per i dolori a venire. Ma, nonostante gli avvisi, ancora oggi se indietro dovessi tornare, già so che di nuovo mi ridarei all’oceano e che, tra i bei banchi di pesce, lascerei proprio agli squali il diritto di fare della mia carne brandelli senza rimorsi.

Eppure la risento la tua voce come se fosse allora, che urla e si dispera per non accettare la scelta che mi lasciassi sbranare; lo rivedo il tuo sguardo perso, nello sconforto di quando tornavo al mattino come un relitto alla riva, a sdraiarmi al tappeto felice dei lividi implorati alla notte.

Perché tu eri il rifugio e quella era la fuga, la vita controvento che da sempre mi anima dentro: anche se ora di te, mia Itaca, mi resta ogni giorno il tormento del mancato ritorno.

Mamma, se potessi mostrarti quanto tra le corde che mi legano il cuore, inconsueto stringe grande un amore; Mamma se solo riuscissi a dirti dell’armonia che infondono dure certe parole, se della mia anima ti arrivasse il canto, struggente e immenso, come quando grida per volare il suo bisogno nel dolore, forse Mamma ammainerei per qualche tempo le mie vele, acquieterei forse più a lungo questa mia barca avventuriera fra le onde. Mamma mi basterebbe riavere bello un tuo sorriso per un giorno.

Mamma riuscissi a dirti per quale ragione dal tuo porto, in cui così ora ti cerco, già so poi vorrò spiegare le vele; per quale ragione questa carena per vivere il suo meglio sceglierà sempre e solo, ogni volta, d’assoggettarsi senza remore alla rara resistenza delle onde.

Mamma potessi incontrarti adesso ti abbraccerei come fa il mare dolcemente con la rena.







(A mia Madre)