Vuoi, il mormorio inevitabile
Vuoi che rotei attorno al palo come un compasso impazzito, prima di finire a terra con la pelle ancora palpitante e il respiro corto. Vuoi che distribuisca la mia carne nuda allo sguardo goloso ma è nient’altro che a Te, Michael, che immolo me stessa con compiacimento e con orgoglio, dentro il momento capace di ogni eccesso.
Vuoi che valuti ogni singolo movimento, che mi lasci andare a ogni tremore che mi matura dentro, vuoi movenze che nulla nascondano all’immaginazione, vuoi che mi accarezzi e mi apra, che mi faccia riempire da ogni sguardo appassionato.
Sono il Tuo angelo,
Le gambe sforbiciano in equilibrio precario, la mano scorre in percorsi ripetuti lungo la piega del sesso e, vuoi che separi con dolcezza i glutei e che consenta allo sguardo di ognuno, per un istante fugace, di entrarmi dentro.
Ecco, sembro dire, io sono questa, scopatemi, bevetemi tutta.
Esposta, cruda, disponibile, le gambe divaricate, succhiata, lentissimamente fino ad accasciarmi come una bambola rotta, ho indugiato in struggimento per i Tuoi occhi soltanto.
Tu sei per me un culto edonista, l’adorazione del bello. Ciò che mi concedi temporaneamente per soddisfare un certo stato d’animo, il torso guizzante, le gambe nervose, la veemenza del ballo, sono “dipendenza” (vuoto felice), che collegano il Tuo magnetismo alla vibrazione armonica che non so e non saprò mai contenere.
Padrone della mia anima (Maestro d’Amore) vuoi che sia Tua oltre l’inesplicabile, severo e insolente, paralizzandomi e incantandomi: fai di me acqua che bolle in un bricco in fondo al quale sono disposte sottomissione e passione, la melodia che si produce ricorda il mormorio inevitabile di tutte le risacche e il vigore di una tempesta sul fogliame e sulle bestie.
Vuoi che omaggi la mia bocca ai Tuoi piedi, vuoi che sia fuoco e neve sui rilievi nel giardino del Tuo piacere. Vuoi che rimanga scossa, quasi senza coscienza, chiusa in gola, mentre le Tue dita incidono precise, introducono e richiudono la carne come a cucire una ferita.
Vuoi che sul corpo porti la traccia violenta di questo desiderio irragionevole, potente e costante, senza sensi di colpa, incapace di vergogna. Vuoi che mi intrattenga attaccata a un’altra donna, con un turbamento quasi insopportabile, leccata fino a perdere il respiro, mangiata e assorbita a piccoli morsi, a piccoli tocchi di denti e di lingua, prima che un Tuo colpo mi immerga tra le cosce.
Vuoi la mia aria ansiosa, vuoi il mio grido di gioia. Vuoi il dolore misurato che sa tenermi prigioniera.
Perché non abbia mai bisogno di guardarmi per sapere che mi contorco come una puttanella e che ne chiedo ancora.
Ebbra mi vuoi.
Ebbra come la mira che hai alternato alla dedizione della fanciulla amica sulla mia fessura e al palmo della mano sconosciuta che mi occupava i seni bianchi e bruni. Ebbra per adesione estrema quando in ginocchio, mi hai sollevato la testa, divaricandomi trattenuta per i polsi, a una certa distanza, e fermamente stretta dal Tuo ventre mi hai cavalcato la faccia. (“Bel dressage” ho sentito provenire da una voce chiara e alquanto audace), in sottofondo, rilevandomi del Tuo volto il tiro e della presa la seduzione e la tensione fino in fondo, prima di sentire il fuoco interno che ancor mi brucia.
Ebbra.
(A M.)
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