02 novembre 2005

DA SOLA


L'immagine è di Araki Nobuyoshi



E’ quando da sola in un locale notturno, vedo scorrere scene che un tempo avrei detto morbose, un tempo che ormai riconosco lontano e non soltanto un mese più addietro.

E’ quando ho le dita ghiacciate su un bicchiere che cola, qualche goccia di gin, di martini e cointreau come certe lacrime amare. E’ dentro un ambiente fumoso, dove il vapore che sale è quello dei corpi a seguire l’istinto. E’ allora che insisto, e se capita, prendo la macchina ed esco, perché proprio la voglia di farmi puttana è più forte del rischio che corro a restarmene sola e in silenzio.

E’ quando cerco la strada più infame per avere conforto, tra due braccia straniere che mi dicano ‘amore’ senza conoscerne il senso, senza tra l’altro nemmeno crederci un soffio, che io pretendo e ritrovo la nebbia, il calore, dove godono bocche che non pronunciano suono, ma nient’altro che un’eco in prolungarsi continuo di sospiro in sospiro.

E’ quando sto ferma col cuore come in sala d’aspetto, su un numero fisso che squilla occupato, oltre il capo di un filo che forse non raggiunge nessuno. E’ allora che la strada mi chiama e mi batte da dentro, affinché, perlomeno, io dia una risposta al seguire di un fischio, per stanare la voglia, prima che la notte sfinisca e non racconti più storie. Ma squarci soltanto una feritoia al traguardo, la mia, squallida e oscena.

E’ quando senza ragione mi vedo rinchiusa tra una morsa di gambe e una bocca che succhia e risucchia saliva, da una lingua ad un’altra, di uomo o di donna, fattasi forse vicina con la mia stessa preghiera: troppo consunta per rinunciare a dei baci, pur se ruvidi e vecchi. È allora che non posso non dire di essere folle, da sola, e rimasta in offerta. Ché se almeno non mi risvegliassi sdraiata, troppo spesso sconfitta, nuda sopra a un divano dove si secca la smania di ogni pelle che assorbe un dolore rappreso, - come se poi non si fosse nient’altro che carta da rendere pregna, di schizzi, di pianto, e non solo dell’inchiostro più nero -, non ti direi urlami contro “tu non sei altro che un foglio di figa su cui lasciare una scia”, l’ultima riga, perché il domani forse non viene; e quindi, ad oltranza, non ti direi gridami ancora “tu non sei altro che un’ora da fottere al buio senza più avere controllo”, come una dose di tossica tra le pieghe del sesso da buttare giù in gola perdendo il giudizio. Ma non dirmi che è triste, non osare ti prego nemmeno pensarci. Tesoooro! Vuoi forse che smetta di soffocarmi le labbra sui tuoi gettiti d’ansia? Quelli che alla fine ti liberano, ogni volta, davvero, come se fosse la prima? Ma non dirmi che è triste, non vedi? E’ di queste pareti slabbrate sul nulla, strafatte d’orgasmo, tutta la colpa del renderci insana la nostra rabbia nascosta. La vita.

E’ quando le calze m’avvolgono troppo eleganti per un buco di fiato, mentre sul muro ci struscio e ci smaglio i miei sogni, con la testa da ore svuotata dei versi. Quelli in cui ci credevo che imploravo qualcuno, il tuo nome che inizia per M... di cui capita, non ricordi più il seguito, ché certo succede mi scordi di esistere e di stare in ginocchio con il cuore per terra, o se peggio, su questo suolo dove ora scivolo lurida. Perché ci sono, purtroppo non mancano sere che non metto più il trucco, poiché ad incantarmi di sogni so già non ci saranno più nuvole, ché solo notti tiranne verranno a vedermi morire dentro torbide pozze, quelle in cui piangerò ciò che resta dei giorni. Quelli ancora a venire. Sempre che all’alba stanotte io ancora resista. Ma non dirmi che è triste, non osare ti prego nemmeno pensarci. Lo senti questo cuore che batte seppure qualcuno mi chiude la bocca, con la mano le dita e la lingua, mentre io t’urlo il bisogno, affamato d’amore, oltre il frastuono che gonfia, fruga e sconvolge questi battiti in folle su una vena più grossa. Qui dentro. Tra queste gambe a cui dici ‘cry! now cry, my baby’. Lo senti, furioso e veloce? Lo senti, che se anche stravolta, non trovo sul fondo davvero nient’altro che te. Lo senti?

E’ quando di testa brancolo ubriaca dentro mutande di pizzo, mentre sul palco si recita ancora a sedurre di nuovo per ricominciare daccapo. E’ il momento in cui ancora ritorna il tuo nome sebbene non voglia, ritorna a confondermi dentro, mentre divento incosciente e mi tocco pensando al tuo sguardo, perché è questione di un attimo e risento il tuo alito caldo. Ma almeno mi dico che ha senso questo struggersi al mondo, come se non esistesse che un volto, il tuo, quando cammino per strada e lo specchio negli occhi a chiunque si gira un momento. Si volta, da porco, e la lingua mi tùrbina in faccia ammiccando, alludendo al perché lo fisso da ore senza ritegno.

E’ quando sto ancora con la voglia sul bordo del letto, laddove ogni volta cerco il tuo odore disperso, giacché spesso non resta che quello, senza nessuno da intrecciare nel sonno o perlomeno da dire che certo, è domani, sarà ancora, di nuovo. Se almeno sapessi… È per questa tua assenza spietata che imploro chiunque di dirmi “no, non è triste”, perché il freddo talvolta è davvero più intenso e il bisogno di stringersi addosso è più forte di qualunque buonsenso: quello d’una donna capace di restare in piedi di giorno, ma di notte senza più nessun tornaconto. Ma certo poi passa, lo so che poi passa, così come è iniziata, appena l’alba si mostra e di nuovo risuona la sveglia, suggerendo un talieur per andare in ufficio. Sì certo poi passa.

E’ quando sto sola dentro una stanza, che sento la notte arrivare furiosa ed ingoiarmi bastarda senza nessuna creanza.





(against M., the pain of solitude)